sabato 15 febbraio 2014

Philomena, di Stephen Frears (2013)

Leggo che il film è stato premiato perché “offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna resa libera dalla fede … che nella sua ricerca della verità, sarà sollevata dal peso di una ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare”.

Mi chiedo quanto di questa capacità di perdonare sia da attribuire alla fede e quanto alla stanchezza o alla coriacea assuefazione al dolore tipica di chi ha subito ingiustizie devastanti e non riesce a reagire alla cattiveria se non con lo sbigottimento passivo.
In genere queste vittime consapevoli giustificano (anzi coonestano, nobilitano) la loro indolenza (che in qualche modo è non-dolenza, atarassia) e quasi consacrano la loro incapacità di lasciarsi assalire (giustamente) dalla rabbia e di reagire (come si dovrebbe) con delle ragioni di fede.
Philomena intrisa di religiosità, come lo sono le irlandesi nate negli anni Venti, rientra in questa categoria.
Il perdono per lei è più appagante della vendetta, più accettabile e consono alla sua esistenza della indignazione. La remissività si è “stagionata” in lei. Nel suo intimo è convinta che l’indulgenza le faccia guadagnare indulgenze e che la comprensione della cattiveria altrui le faccia meritare hic et nunc la serenità (altrimenti impossibile per gli oppressi) e nel vicinissimo “futuro” la rivincita costituita dalla pace eterna.

La fede produce energie, è vero. Ma questo non avviene a causa di misteriose infusioni di fluidi extraterrestri.  La forza di chi ha fede è endogena, generata da meccanismi psichici legati alla presa di distanza di chi sente l’insopprimibile bisogno di sopravvivere e di superare il panico della finitezza guardando oltre.


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