Leggo che il film è
stato premiato perché “offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna
resa libera dalla fede … che nella sua ricerca della verità, sarà sollevata dal
peso di una ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare”.
Mi chiedo quanto di
questa capacità di perdonare sia da attribuire alla fede e quanto alla
stanchezza o alla coriacea assuefazione al dolore tipica di chi ha subito
ingiustizie devastanti e non riesce a reagire alla cattiveria se non con lo
sbigottimento passivo.
In genere queste
vittime consapevoli giustificano (anzi coonestano, nobilitano) la loro
indolenza (che in qualche modo è non-dolenza, atarassia) e quasi consacrano la
loro incapacità di lasciarsi assalire (giustamente) dalla rabbia e di reagire (come
si dovrebbe) con delle ragioni di fede.
Philomena intrisa
di religiosità, come lo sono le irlandesi nate negli anni Venti, rientra in
questa categoria.
Il perdono per lei
è più appagante della vendetta, più accettabile e consono alla sua esistenza
della indignazione. La remissività si è “stagionata” in lei. Nel suo intimo è
convinta che l’indulgenza le faccia guadagnare indulgenze e che la comprensione
della cattiveria altrui le faccia meritare hic et nunc la
serenità (altrimenti impossibile per gli oppressi) e nel vicinissimo “futuro”
la rivincita costituita dalla pace eterna.
La fede produce
energie, è vero. Ma questo non avviene a causa di misteriose infusioni di
fluidi extraterrestri. La forza di chi ha fede è endogena, generata da
meccanismi psichici legati alla presa di distanza di chi sente l’insopprimibile
bisogno di sopravvivere e di superare il panico della finitezza guardando
oltre.
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