Arturo cresce a Palermo negli anni terribili in cui la
mafia uccide indisturbata chiunque tenti di ostacolarla; e sembra non
accorgersi di quello che gli accade intorno, ossessionato dall’infatuazione per
Flora, sua compagna di scuola, e ostinato nel voler diventare giornalista, se
non altro per richiamare l’attenzione della bambina sempre attratta da altri corteggiatori
più convincenti.
La violenza rabbiosa dilaga in città e si esprime in
attentati brutali e plateali: è inevitabile che tocchi i margini del
circoscritto universo di Arturo suscitando dentro di lui confusione e
meraviglia, e poi – in crescendo – sconcerto, amarezza, irritazione,
indignazione; per fargli raggiungere alla fine la consapevolezza e il bisogno
di testimonianza.
Arturo, diventando adulto, matura l’equilibrio
sentimentale e la coscienza civile, ma lo fa seguendo suoi particolari percorsi
e mantenendo un approccio con la realtà personalissimo, infantile, ingenuo, di
una naïveté impareggiabile.
Arturo bambino e Arturo adulto sono identici,
ugualmente stupiti e alieni, ugualmente innocenti e disconnessi dalla realtà
assurda.
Coerenti e – a ben vedere – indistinguibili dal
regista, Pif, il provocatore cronista de Le
Iene e l’intervistatore allo sbaraglio de Il testimone che dell’ingenuità, del candore (volterriano),
dell’idiozia (dostoevskiana) ha fatto la sua cifra stilistica, intuendo con
grande perspicacia che lo sguardo innocente, fra lo stupito e lo stupido,
smonta le resistenze di qualsiasi interlocutore e che le domande ingenue
sgretolano l’astrusa complessità dei problemi. (Lo stralunato Pif è da
ammirare, non fosse per altro, per il fatto – straordinario – che ha evitato di
sfruttare il successo televisivo e la popolarità per infliggerci, come molti
altri eroi del piccolo schermo, una stiracchiata e insensata dimostrazione
delle sue performance).
La tipica percezione della realtà palermitana del
protagonista è testimoniata dal modo con cui sono presentati i personaggi
“storici” della lotta alla mafia.
Boris Giuliano, capo della squadra mobile, per Arturo
non è che lo sconosciuto simpatico signore che gli segnala l’estatica delizia
degli iris alla ricotta; e quando il poliziotto viene ammazzato, il piccolo
“testimone” – guardando il corpo riverso a terra crivellato da sette colpi di
pistola nella schiena – non può fare a meno di concentrare la sua attenzione
sui baffi con le tracce della irresistibile farcitura e sulla vetrina dei dolci
frantumata dai proiettili.
Rocco Chinnici è il bonario giudice che abita nel
palazzo di Flora e che – unico – intuisce con acuta ironia e simpatica
complicità l’infatuazione di Arturo per la piccola coinquilina. E quando una
vecchia Fiat 127 esplode davanti alla sua abitazione uccidendo lui, due
carabinieri e il portinaio del palazzo, Arturo riesce a immaginare solo la sua
dichiarazione d’amore scritta sul marciapiede cancellata dal tritolo o le macerie
nella stanza della sua Flora e la costernazione della nonna che guarda la
strage tra i fumi dell’esplosione. Ma tra i detriti s’intravede il braccio
carbonizzato del poliziotto che stringe ancora fra le mani un’inutile pistola.
Dalla Chiesa è un burbero bonario che sta al gioco
dell’intervista col ragazzino un po’ impertinente; ma mette i brividi la
“ironica” sottolineatura della sua vulnerabilità palesata dalla facilità con
cui è raggiungibile nel suo poco blindatissimo ufficio.
Solo l’inserimento di spezzoni raggelanti di sequenze
reali, di repertorio, ci riporta alla realtà cruda, a noi nota perché vista in
passato attraverso gli occhi meno inconsapevoli (o meno consapevoli?) di quelli
di Arturo.
L’innocenza e il candore d’animo, l’ingenuità e la
schiettezza, la sprovvedutezza di Arturo ci fanno apparire ancora più
esecrabile, più ripugnante, quasi più grottesca la bestialità ottusa dei boss onnipotenti,
sempre ipertrofizzati dall’immaginifico circo massmediolologico.
Riina e Bagarella sono beffeggiati, truci e grezzi
come macchiette di varietà.
Perfino l’apatia indifferente ma complice dei
palermitani che negano l’esistenza della mafia emerge maggiormente insopportabile,
amaramente ridicola e mostruosa; mentre l’indignazione degli onesti, presentata
ad altezza di marciapiede, appare sincera e non convenzionale.
Pif schiva il consunto retoricume, evitando di conclamare
condanne o di cadere nel tranello delle celebrazioni agiografiche.
Escluso il periodo d’infatuazione per Andreotti, per
Arturo-Pif nessuno è eroe da monumento, né in negativo, né in positivo. E
nessuno viene mitizzato. Solo quelli che sono morti per strada compiendo il
loro routinario dovere non devono essere dimenticati, così come lo sono le loro
introvabili lapidi in un paese senza memoria.
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