lunedì 27 gennaio 2014

La mafia uccide solo d'estate (2013) di Pierfrancesco Diliberto, detto Pif



Arturo cresce a Palermo negli anni terribili in cui la mafia uccide indisturbata chiunque tenti di ostacolarla; e sembra non accorgersi di quello che gli accade intorno, ossessionato dall’infatuazione per Flora, sua compagna di scuola, e ostinato nel voler diventare giornalista, se non altro per richiamare l’attenzione della bambina sempre attratta da altri corteggiatori più convincenti.
La violenza rabbiosa dilaga in città e si esprime in attentati brutali e plateali: è inevitabile che tocchi i margini del circoscritto universo di Arturo suscitando dentro di lui confusione e meraviglia, e poi – in crescendo – sconcerto, amarezza, irritazione, indignazione; per fargli raggiungere alla fine la consapevolezza e il bisogno di testimonianza.

Arturo, diventando adulto, matura l’equilibrio sentimentale e la coscienza civile, ma lo fa seguendo suoi particolari percorsi e mantenendo un approccio con la realtà personalissimo, infantile, ingenuo, di una naïveté impareggiabile.
Arturo bambino e Arturo adulto sono identici, ugualmente stupiti e alieni, ugualmente innocenti e disconnessi dalla realtà assurda.
Coerenti e – a ben vedere – indistinguibili dal regista, Pif, il provocatore cronista de Le Iene e l’intervistatore allo sbaraglio de Il testimone che dell’ingenuità, del candore (volterriano), dell’idiozia (dostoevskiana) ha fatto la sua cifra stilistica, intuendo con grande perspicacia che lo sguardo innocente, fra lo stupito e lo stupido, smonta le resistenze di qualsiasi interlocutore e che le domande ingenue sgretolano l’astrusa complessità dei problemi. (Lo stralunato Pif è da ammirare, non fosse per altro, per il fatto – straordinario – che ha evitato di sfruttare il successo televisivo e la popolarità per infliggerci, come molti altri eroi del piccolo schermo, una stiracchiata e insensata dimostrazione delle sue performance).  

La tipica percezione della realtà palermitana del protagonista è testimoniata dal modo con cui sono presentati i personaggi “storici” della lotta alla mafia.
Boris Giuliano, capo della squadra mobile, per Arturo non è che lo sconosciuto simpatico signore che gli segnala l’estatica delizia degli iris alla ricotta; e quando il poliziotto viene ammazzato, il piccolo “testimone” – guardando il corpo riverso a terra crivellato da sette colpi di pistola nella schiena – non può fare a meno di concentrare la sua attenzione sui baffi con le tracce della irresistibile farcitura e sulla vetrina dei dolci frantumata dai proiettili.
Rocco Chinnici è il bonario giudice che abita nel palazzo di Flora e che – unico – intuisce con acuta ironia e simpatica complicità l’infatuazione di Arturo per la piccola coinquilina. E quando una vecchia Fiat 127 esplode davanti alla sua abitazione uccidendo lui, due carabinieri e il portinaio del palazzo, Arturo riesce a immaginare solo la sua dichiarazione d’amore scritta sul marciapiede cancellata dal tritolo o le macerie nella stanza della sua Flora e la costernazione della nonna che guarda la strage tra i fumi dell’esplosione. Ma tra i detriti s’intravede il braccio carbonizzato del poliziotto che stringe ancora fra le mani un’inutile pistola.
Dalla Chiesa è un burbero bonario che sta al gioco dell’intervista col ragazzino un po’ impertinente; ma mette i brividi la “ironica” sottolineatura della sua vulnerabilità palesata dalla facilità con cui è raggiungibile nel suo poco blindatissimo ufficio.
Solo l’inserimento di spezzoni raggelanti di sequenze reali, di repertorio, ci riporta alla realtà cruda, a noi nota perché vista in passato attraverso gli occhi meno inconsapevoli (o meno consapevoli?) di quelli di Arturo.

L’innocenza e il candore d’animo, l’ingenuità e la schiettezza, la sprovvedutezza di Arturo ci fanno apparire ancora più esecrabile, più ripugnante, quasi più grottesca la bestialità ottusa dei boss onnipotenti, sempre ipertrofizzati dall’immaginifico circo massmediolologico.
Riina e Bagarella sono beffeggiati, truci e grezzi come macchiette di varietà.
Perfino l’apatia indifferente ma complice dei palermitani che negano l’esistenza della mafia emerge maggiormente insopportabile, amaramente ridicola e mostruosa; mentre l’indignazione degli onesti, presentata ad altezza di marciapiede, appare sincera e non convenzionale.

Pif schiva il consunto retoricume, evitando di conclamare condanne o di cadere nel tranello delle celebrazioni agiografiche. 

Escluso il periodo d’infatuazione per Andreotti, per Arturo-Pif nessuno è eroe da monumento, né in negativo, né in positivo. E nessuno viene mitizzato. Solo quelli che sono morti per strada compiendo il loro routinario dovere non devono essere dimenticati, così come lo sono le loro introvabili lapidi in un paese senza memoria.

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