Dolan, maturo ventisettenne, ci rovescia addosso per l’ennesima
volta le sue ossessioni; e per l’ennesima volta ci travolge.
Il suo nuovo film t'inghiotte, denso di emozioni dalle quali
emergi a fatica. E hai bisogno, una volta fuori, di andartene in silenzio per
lasciare che l’ingorgo si disciolga lento e il groviglio delle inquietudini si
stemperi.
La trama è esile e racconta di Louis, un giovane scrittore che
dopo 12 anni di distacco torna a casa per cercare di comunicare ai suoi –
mamma, sorella, fratello, cognata – che sta per morire.
Louis aveva scelto di allontanarsi da casa (e da tutti loro)
forse solo per vivere liberamente la sua omosessualità, per tuffarsi in una
quotidianità “altra” sciolta dai legami col passato (quello dell’infanzia
radiosa e quello della torbida adolescenza); convinto, a ragione, che le scelte
difficili hanno bisogno di tagli drastici; e che il dispatrio – direbbe
Meneghello – è la cosa più importante della vita adulta perché non fa perdere il
filo della propria identità, ma costringe a cominciare una nuova vita.
Ma tornare non è semplice, e non è facile affrontare
l’improrogabile discorso, chiudere un cerchio e ristabilire un equilibrio
compromesso. I dodici anni di assenza sono diventati un macigno.
Louis ha riluttanze insormontabili. Gli altri, che non hanno
mai accettato la sua fuga (e tanto meno le ragioni che l’hanno determinata),
non sanno far altro che fingere un’assurda normalità. E al suo arrivo assalgono
il frastornato figliol prodigo con tutti i loro scompensi affettivi: la sorella
più giovane (Léa Seydoux) lo sommerge
con ammirata curiosità e appassionate attenzioni; la madre (Nathalie Baye) gli manda cauti segnali
di premura e comprensione; il fratello (Vincent
Cassel) cerca l’antico cameratismo fraterno con brusca acrimonia maschile,
controbilanciata dall’ansiosa affettuosità della cognata (la splendida Marion Cotillard).
Louis deve trovare il modo di bypassare l’ostacolo. È venuto
per parlare e deve farlo. Deve assolutamente dire quel che ha dentro prima che il
tempo scada.
Gli altri invece, più o meno inconsapevolmente, cercano il
modo per fermarlo, come a volersi difendersi da lui: forse perché, ormai
abituati a galleggiare sull’inautenticità, non vogliono essere fagocitati dalla
realtà per trovarsi di nuovo sospesi nel vuoto o sbilanciati dopo aver
guadagnato un loro difficile equilibrio. E per salvarsi da Louis parlano,
esasperatamente loquaci, chiacchierano fino a renderlo afasico: riempiono i
tempi di reminiscenze e recriminazioni, brindisi e gelosie, abbracci e
risentimenti, confidenze e tensioni, baci e lacrime, sopraffazioni e
frustrazioni. Psicodrammi da kammerspiel, insomma, tipo Carnage di Polanski.
Mentre il protagonista tace, annuisce remissivo, qualche
volta bisbiglia (e i suoi pensieri li sentiamo sussurrati dalla voce
fuoricampo).
Siamo di fronte ad un paradosso (frequente anche nella vita)
per cui l’ipertrofia delle chiacchiere provoca l’atrofia della comunicazione e
il vaniloquio nasconde/rivela l’incapacità di relazionarsi.
Se è vero che le rare parole sincere aprono l’anima, il
diluvio di quelle insincere la avvolge; la logorrea è riluttanza al dialogo; le
chiacchiere vacue sono la maschera più vigliacca ed efficace dietro cui si
nasconde chi non ha più nulla da dire.
In mezzo a questa bufera delle futilità, però, la verità
mostruosa preme come il magma sotterraneo: lo si intuisce dalle sbirciate
smarrite e angosciate della sorella, dagli occhi morbidamente amorevoli della
cognata, dai silenzi schivi e avvolgenti della madre, dalle sfuriate terribili,
isteriche, del fratello. Dove le parole non affiorano, insomma, avanzano
controcorrente gli sguardi.
Per questo Dolan gira tutto in interni e insiste
ossessivamente coi primi piani che catturano l’anima e ne rivelano la
solitudine (l’unica scena in esterna, quella del tragitto in macchina dei due
fratelli, è la più angosciante e claustrofobica di tutto il film).
Louis, arrivato per preannunciare la morte e chiudere una
partita rimasta aperta, resta avviluppato nella angoscia che lo ha condotto lì.
E impara che non serve voltarsi indietro, come Orfeo, o
cercare il tempo perduto.
All’inizio del film, la sequenza degli sguardi fra Louis e
la cognata seduti sul divano, mentre tutti nella stanza parlano, è una delle
più struggenti scene di tenerezza mai rappresentate.
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