mercoledì 11 gennaio 2017

La stoffa dei sogni (2016) di Gianfranco Cabiddu



Il film inizia con una tempesta in mare e l’affondamento di un barcone che trasporta alcuni detenuti in trasferta, oltre che una scalcinata piccola compagnia di teatro itinerante.
I naufraghi trovano scampo su un’isoletta (l’Asinara), sede di colonia penale, sono soccorsi dalle guardie carcerarie e trovano ospitalità provvisoria nei locali del carcere.
I camorristi, che durante la tempesta in mare erano riusciti a liberarsi delle catene, costringono il capocomico (Sergio Rubini) a sostenere che tutti gli scampati fanno parte della troupe; ma il diffidente direttore del carcere (Ennio Fantastichini), per riuscire a individuare e smascherare i finti attori, propone-impone l’allestimento de La Tempesta di Shakespeare.

La sapientissima sceneggiatura (del regista, con Ugo Chiti e Salvatore De Mola) congegna un copione stratificato, combinando tre canovacci e contaminando i testi di questa strana storia con quelli della tragedia scespiriana e con quelli dell’Arte della commedia di Eduardo De Filippo (dove si parla del valore politico del teatro e dell’ottusità del potere, ma si gioca anche, pirandellianamente, sull’impossibilità – o inutilità – della distinzione fra finzione e realtà).
In questo intreccio complesso ogni personaggio si presenta ambiguo, scisso, doppio se non triplo, e costretto a funamboliche menzogne: i camorristi fingono di essere attori, il capocomico e i guitti sono forzati ad assecondarli, il direttore del carcere finge di adeguarsi in attesa di scoprire la verità.
Alla dissimulazione triangolare se ne aggiungono altre: Miranda, la figlia adolescente del responsabile del carcere, nasconde un giovane camorrista, figlio del boss, rimasto alla macchia, se ne innamora ed elude la sorveglianza per frequentarlo; lui, Ferdinando, desidera dimenticare il proprio nome e la propria natura per affrancarsi dal padre, redimersi e far durare la sua storia d’amore nell’Eden selvaggio e autentico dell’isola; sempre il direttore, che ha scelto l’isola per coltivarvi il senso di solitudine dopo che la moglie l’ha abbandonato, è scisso fra l’istinto paterno di proteggere la figlia adolescente e la necessità lasciarla volare.
Tutti scoprono il proprio doppio, un risvolto nascosto della propria anima, un altro sé intimamente vero;  tutti si accorgono che la faccia che portano in giro, scantonando per finzione dalla propria identità, è una maschera imposta dalle circostanze; tutti scoprono che sotto il travestimento che indossano per necessità contingenti vive uno spirito più integro, affiora un sogno trattenuto, gorgogliano desideri rappresi.
E tutti si ritrovano a braccare la propria autenticità, quella che – si presume – costituiva il nucleo primitivo dell’esistere, svanita con l’avvento del compromesso originale.

È inevitabile provare empatia per questa disparata comitiva di anime disorientate che brancolano alla ricerca di sé e si scontrano senza riconoscersi. Nella loro eterogeneità, tutti i personaggi di questo film si affannano alla ricerca della felicità (o almeno della serenità). Come noi, del resto, più o meno convinti, più o meno consapevoli. Tutti, fra miseria e nobiltà, sopportano la quotidianità nel tentativo di sopravvivere; e tutti indossano armature e maschere che aiutano ad attraversare le foreste e i labirinti della vita; e si affidano ai sogni, la cui trama è costituita, come ognuno sa, dai desideri inconsci (primordiali, insoddisfatti).
L’attraversamento della tempesta ha segnato una svolta.
Lo sfondo irreale e incontaminato dell’isola crea condizioni irripetibili.
Le finzioni del palcoscenico, degli scenari, delle luci e dei suoni proiettano in un universo parallelo e rendono possibile tutto, anche lo spiccare il volo di libertà dal cortile di un carcere.
Sì, perché il teatro, come il cinema o la poesia, è spesso la descrizione di quel che siamo, ma sempre vuole essere la rappresentazione dei sogni, la narrazione di come potrebbe essere la nostra vita “se …”.
Tutti i personaggi – i camorristi e gli attori spaventati, i carcerati e i carcerieri, il direttore del carcere e sua figlia – colgono la capacità del teatro di rappresentare la realtà di ciascuno, di interpretare le emozioni e di esaltare le passioni. Tutti, perfino l’omerico pastore Antioco (un sublime Fiorenzo Mattu), primitivo e analfabeta, percepiscono emotivamente la possibilità che possiede l’arte di trasfigurare la realtà, sublimare i desideri e reinventare una vita possibile.

Solo in film onesti come questo accade il miracolo per cui la simulazione è sinonimo di verità.




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