Il film inizia con una tempesta in mare e l’affondamento di
un barcone che trasporta alcuni detenuti in trasferta, oltre che una scalcinata piccola
compagnia di teatro itinerante.
I naufraghi trovano scampo su un’isoletta (l’Asinara), sede
di colonia penale, sono soccorsi dalle guardie carcerarie e trovano ospitalità
provvisoria nei locali del carcere.
I camorristi, che durante la tempesta in mare erano riusciti
a liberarsi delle catene, costringono il capocomico (Sergio Rubini) a sostenere che tutti gli scampati fanno parte della
troupe; ma il diffidente direttore del carcere (Ennio Fantastichini), per
riuscire a individuare e smascherare i finti attori, propone-impone
l’allestimento de La Tempesta di
Shakespeare.
La sapientissima sceneggiatura (del regista, con Ugo Chiti e
Salvatore De Mola) congegna un copione stratificato, combinando tre canovacci e
contaminando i testi di questa strana storia con quelli della tragedia
scespiriana e con quelli dell’Arte della
commedia di Eduardo De Filippo (dove si parla del valore politico del
teatro e dell’ottusità del potere, ma si gioca anche, pirandellianamente,
sull’impossibilità – o inutilità – della distinzione fra finzione e realtà).
In questo
intreccio complesso ogni personaggio si presenta ambiguo, scisso, doppio se non
triplo, e costretto a funamboliche menzogne: i camorristi fingono di essere
attori, il capocomico e i guitti sono forzati ad assecondarli, il direttore del
carcere finge di adeguarsi in attesa di scoprire la verità.
Alla
dissimulazione triangolare se ne aggiungono altre: Miranda, la figlia
adolescente del responsabile del carcere, nasconde un giovane camorrista,
figlio del boss, rimasto alla macchia, se ne innamora ed elude la sorveglianza
per frequentarlo; lui, Ferdinando, desidera dimenticare il proprio nome e la
propria natura per affrancarsi dal padre, redimersi e far durare la sua storia
d’amore nell’Eden selvaggio e autentico dell’isola; sempre il direttore, che ha
scelto l’isola per coltivarvi il senso di solitudine dopo che la moglie l’ha
abbandonato, è scisso fra l’istinto paterno di proteggere la figlia adolescente
e la necessità lasciarla volare.
Tutti
scoprono il proprio doppio, un risvolto nascosto della propria anima, un altro
sé intimamente vero; tutti si accorgono
che la faccia che portano in giro, scantonando per finzione dalla propria
identità, è una maschera imposta dalle circostanze; tutti scoprono che sotto il
travestimento che indossano per necessità contingenti vive uno spirito più
integro, affiora un sogno trattenuto, gorgogliano desideri rappresi.
E tutti
si ritrovano a braccare la propria autenticità, quella che – si presume –
costituiva il nucleo primitivo dell’esistere, svanita con l’avvento del
compromesso originale.
È inevitabile provare empatia per questa disparata comitiva
di anime disorientate che brancolano alla ricerca di sé e si scontrano senza
riconoscersi. Nella loro eterogeneità, tutti i personaggi di questo film si
affannano alla ricerca della felicità (o almeno della serenità). Come noi, del
resto, più o meno convinti, più o meno consapevoli. Tutti, fra miseria e
nobiltà, sopportano la quotidianità nel tentativo di sopravvivere; e tutti
indossano armature e maschere che aiutano ad attraversare le foreste e i
labirinti della vita; e si affidano ai sogni, la cui trama è costituita, come
ognuno sa, dai desideri inconsci (primordiali, insoddisfatti).
L’attraversamento della tempesta ha segnato una svolta.
Lo sfondo irreale e incontaminato dell’isola crea condizioni
irripetibili.
Le finzioni del palcoscenico, degli scenari, delle luci e
dei suoni proiettano in un universo parallelo e rendono possibile tutto, anche
lo spiccare il volo di libertà dal cortile di un carcere.
Sì, perché il teatro, come il cinema o la poesia, è spesso
la descrizione di quel che siamo, ma sempre vuole essere la rappresentazione
dei sogni, la narrazione di come potrebbe essere la nostra vita “se …”.
Tutti i personaggi – i camorristi e gli attori spaventati, i
carcerati e i carcerieri, il direttore del carcere e sua figlia – colgono la
capacità del teatro di rappresentare la realtà di ciascuno, di interpretare le
emozioni e di esaltare le passioni. Tutti, perfino l’omerico pastore Antioco
(un sublime Fiorenzo Mattu), primitivo
e analfabeta, percepiscono emotivamente la possibilità che possiede l’arte di
trasfigurare la realtà, sublimare i desideri e reinventare una vita possibile.
Solo in film onesti come questo accade il miracolo per cui
la simulazione è sinonimo di verità.
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