Il film sviluppa un’idea non del tutto originale (la
filmografia sul rapporto uomo-macchina è sterminata) ma lo fa con una
sceneggiatura ben congegnata, che regge nonostante alcune pesantezze nei
dialoghi.
Theodore (Joaquin Phoenix) lavora in un’azienda che
predispone mielate lettere d’amore su richiesta e su misura dei singoli
committenti, e lo fa acquisendo poche informazioni essenziali per calarsi con
grande sensibilità nei panni dei suoi “clienti”.
La sua empatia è eccezionale e la capacità di trovare le
espressioni più efficaci è straordinaria se si tiene conto che l’azione si
svolge in un prossimo futuro ipertecnologico (molto probabile e simile al
nostro) nel quale, considerate le infinite opportunità comunicative non
verbali, una lettera sentimentale non può essere altro che un vezzo di alto
valore poetico ma di scarsa utilità pratica.
Da buon venditore di parole (surrogati della fisicità), è
solo: sentimentalmente parlando, è separato e vive in una fase di transizione,
sospeso fra emozioni perdute, velleità indefinite, esitazioni irrisolte.
E dunque acquista per sé un’interlocutrice virtuale inserita
in un sistema operativo, una partner artificiale dialogante, ovviamente
programmata sui suoi bisogni, che si muove un po’ come fa lui con i suoi
clienti afasici, tentando di immedesimarsi in loro per meglio interpretarli.
Le manovre dei due personaggi sono complesse e ondivaghe.
Samantha OS1 (questo è il nome che la nuova “fidanzata” ha
scelto per sé) comunica con Theodore (con la voce di Scarlett Johansson in inglese e con quella roca di
Micaela Ramazzotti in italiano) dopo averlo ben inquadrato, misurandosi con la sua
complessa personalità e tenendo conto anche della sua voglia di imbozzolarsi,
della sua sterile verbosità, delle sue fantasie erotiche, esplicite o
sottaciute.
Theodore, che si era messo in stand-by sul piano
sentimentale per evitare delusioni e frustrazioni e si era allontanato dalla
sua “umanità” per rifugiarsi nella tecnologia, compie un’inversione a U,
s’imbarca in una storia d’amore (che crede di poter controllare). Le
conversazioni diuturne, empatiche come da contratto, fanno nascere in Lui una
simpatia, un principio d’innamoramento, un’infatuazione progressiva,
un’affezione amorosa, ovviamente assecondata dalla femme servante. Lo vediamo abbandonarsi
alla deriva dei sentimenti con le sue sensibilità (molto femminili) e con tutta
la carica emozionale che gli ricresce dentro naturale e propria dell’uomo,
quindi illogica.
Samantha-OS1 compie il percorso inverso. Da vera “macchina”
programmata per essere specchio, emanazione e amplificazione dei bisogni
sentimentali di Theodore, si comporta con la piaggeria imposta dalle regole
d’ingaggio (come fosse una puttana), asseconda il padrone disorientato (ripetendogli
continuamente “As you like it”) e – dopo “averlo imparato” – risponde come
suggerisce la sua sapienza psicologica. Ma poi, procedendo con la sistematica
fame esperienziale di chi è pianificato per crescere accumulando dati, si
arricchisce (?) progressivamente di connotazioni antropiche (proprio – tutti i
cinefili lo ricorderanno – come il N.° 5 in Corto
circuito di John Badham, del 1986, col suo ossessivo “Necessito imput!”) e gradatamente
si umanizza, senza però appesantirsi delle consustanziali zavorre morali o
sentimentali proprie di noi mortali. E diventa infine “donna”, cioè “domina”.
In sintesi: Theodore, il maschio, prima sceglie e dispone,
poi regredisce e perde indipendenza; Samantha, emblematicamente femmina, prima ascolta
e asseconda, prende ordini e dipende, conversa con irreale tenerezza, lavora
per lui; poi progredisce irrefrenabile, si emancipa, prende iniziative, lo
sostituisce, comanda.
Significativa la scena nella quale Theodore, in mezzo ai
passanti sbigottiti, gira “come fosse una trottola” su comando di Samanta; e quasi
tragicomica appare un’altra scena, quella di un ansimantissimo orgasmo a
conclusione di un amplesso richiesto da lei
(con lui che si chiede perplesso la ragione degli inutili sospiri).
Ovviamente, col passare del tempo, il crescente distacco fra
i bisogni primordiali dell’uomo (di controllo totale e dominio geloso) e le
mansioni evolute della macchina emancipata entrano in rotta di collisione e la
frattura diventa inevitabile e incolmabile.
Il processo di deumanizzazione iniziato da Theodore (caratterizzato
da dipendenza da gadget tecnologici, robotica domestica, wireless a gogò,
videogiochi inglobanti l’avatar e sesso virtuale) evapora di fronte ai più
primitivi impulsi dettati dai fantasmi della gelosia, dalla sindrome di
abbandono, dallo smarrimento. L’uomo
ridiventa uomo vulnerabile, un povero Cristo nato per soffrire.
Samantha, ideata come strumento della guarigione, inizia a
ferire.
Nemmeno tutta la sua sapienza psicologica (accumulata per
“essere”) riesce a frenare la deriva di colui per il quale esiste.
Ancora una volta l’inappagato maschio, impossibile da
soddisfare (o incapace di suo di trovare completezza), sempre incontentabile e lanciato
alla ricerca del “possesso” esclusivo ed escludente (“O sei mia o non sei mia”), si ritrova davanti un essere
irraggiungibile. Samantha è sempre lì, vicina – certamente – ma sta eseguendo
un suo aggiornamento, pensa ad altro, è con la testa altrove, interattiva anche
con altri, inclusiva (“Sono tua e non
sono tua”), omnicomprensiva, omnivora, in altre faccende affaccendata.
E il cerchio si chiude nel più prevedibile dei modi.
Jonze – a ben vedere – ci racconta un’assurda (cioè
ordinaria) storia d’amore (cioè di solitudine).
Una storia che, in più, veicola un messaggio infinitamente
triste, sostenendo (non so quanto gli autori siano di questo consapevoli) che l’uomo non troverà mai l’appagamento,
nemmeno in una donna fatta su misura,
incarnazione dei suoi desideri. Forse perché è più forte in lui la necessità di
inseguire le proprie ossessioni rispetto al bisogno di trastullarsi in faticosi
idilli e gestire emozioni reali.
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Fitti (quasi disorientanti) i dialoghi, anche se nella fase conclusiva
debordano e presentano lungaggini, esitazioni e sfilacciamenti.
Lo sfondo è blade-runneriano (anche se molto pulito, diluito
e ricolorato con tinte pastello, un po’ fasulle): forse a significare che anche
qui il virtuale mangia il biologico, oppure che i rapporti umani (con i relativi
sentimenti) sono destinati a polverizzarsi; ma anche a ribadire che l’uomo, per
quanto apocalittico o utopico sia il suo futuro, sempre omuncolo rimane.
Bello lo skyline con grattacieli neri dalle finestre
illuminate ma vuote.
Joaquin Phoenix giganteggia (se non altro perché fa tutto da
solo) triste coi suoi occhi verdi e goffo nei suoi inverosimili calzoni
ascellari.
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