Nell’inverno del 1961 Joel David Coen ed il
fratello Ethan Jesse Coen hanno rispettivamente 7 e 4 anni e
vivono a St. Louis Park, nel Minnesota; sempre nel Minnesota, a Minneapolis,
Robert Zimmerman (un ventenne Bob Dylan, pulitino e pettinato) frequenta
l’università e comincia a mollare il rock
and roll per lasciarsi sedurre dalla musica folk (“Le
canzoni folk – dice – sono colme di
disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi. [...] C'è più vita reale in una
sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del
rock'n'roll”).
A 2.000 chilometri di distanza, a New York, si affacciano alla
scena (su palchetti male illuminati di piccoli locali, ovviamente fumosi) i
primi folk-singer (figli di immigrati delle periferie operaie) che,
accompagnandosi con la sola chitarra, cantano ballate malinconiche e cercano
incerti la loro strada.
Llewyn Davis, il protagonista del film dei Coen (Oscar
Isaac) è uno di questi spiantati.
Vive nel Greenwich Village quando il quartiere newyorchese è
ancora un dedalo di vie sghembe e di case fatiscenti; è solo, reduce da alcune
relazioni sbagliate, senza affetti e senza casa; dorme qua e là sui divani di
conoscenti ospitali in piccoli appartamenti dentro palazzi angusti nei quali
trova economico alloggio una massa di quasi
artisti (attori, musicisti, poeti, pittori, studenti, nullafacenti), alcuni
ancora aspiranti tali, altri già falliti, disillusi, frustrati e sbandati; vaga
incerto in cerca di scritture dopo che l’unico amico, quello con cui formava un
duo, s’è suicidato; quando non si arrabatta a cantare nell’unico bar che ospita
occasionalmente dei cantanti folk, accetta di fare qualunque lavoro pur di
sbarcare il lunario ed evitare di tornare a fare il marinaio come suo padre o
di arruolarsi nella marina (proprio nei mesi in cui Kennedy, presidente da meno
di un anno, comincia a pensare a un intervento nel Vietnam che serva a “rendere
credibile la potenza americana” contro il comunismo avanzante).
Lo incontriamo in un momento di crisi profonda, quando, stanco
di annaspare, si sposta a Chicago in cerca di un ingaggio meno incerto; ma i
sogni sfibrati, le insoddisfazioni, le instabilità emotive che si porta dentro e
la scarsa determinazione rendono la sua trasferta stanca e inutile. Non trova
quel che spera e torna rassegnato ai suoi vagabondaggi, nelle fredde strade del
Village.
I fratelli Coen aggiungono un nuovo ritratto alla loro
galleria di perdenti.
Davis però è un loser
diverso rispetto agli scombinati cialtroni di Blood Simple, di Fargo,
de Il grande Lebowski o di Ladykiller, ed è diverso anche dagli
infelici perdenti de L’uomo che non c’era
o di A Serius Man.
Il giovane cantante folk è prima di tutto un perdente in
senso letterale, avendo effettivamente perso l’amico, due donne, un figlio che
non sapeva di avere, uno che non potrà nascere, la casa, il lavoro, lo
scatolone degli oggetti personali (e con quello i ricordi, il passato, la
memoria), la patente nautica, un gatto. E dopo la breve trasferta a Chicago,
inutile viaggio kerouachiano, perderà anche (ultima dea) la speranza di poter
vivere della sua musica.
In secondo luogo, la condizione di fallito è costitutiva
della personalità di Davis che accetta la deriva e non fa nulla per salvare le
relazioni, assiste quasi da “straniero” camusiano ai deragliamenti e si lascia
inghiottire dall’atonia senza reagire.
Llewin Devis non è un rassegnato Giobbe, come il Larry di A Serius Man, anche perché non è vittima
di un fato ineluttabile ma causa cosciente delle sue infelicità; e non è
nemmeno un infelice rancoroso e desideroso di vendetta come il barbiere Ed
Crane de L’uomo che non c’era perché
non riesce (non desidera, non vuole) ribellarsi con l’energia necessaria
ad imprimere il minimo cambiamento alla sua vita: è un afflitto Oblomov che
patisce per il suo disadattamento ma ci sguazza, è un ribelle potenziale, un
rivoluzionario svogliato. Non è il mondo che gli è ostile, è lui che si
estrania e va contro mano, coscientemente amorfo e indifferente.
Davis vaga sconsolato alla deriva, attraversa quartieri
grigi e periferie deserte, percorre strade gelate e paesaggi innevati; passa distaccato
accanto ad amici incomprensibilmente gentili che sopportano i suoi ripiegamenti
autistici; si scontra con sconosciuti inspiegabilmente aggressivi; incontra
gente scombinata e strana, che passa e non lascia segno, come i cartelli delle
stazioni su un tratto della metropolitana che paiono letti solo dallo sguardo
attento e vivo del gatto.
Il suo è un percorso circolare che lo riporta al punto di
partenza, come Ulisse – il gatto, intendo. Con una differenza: entrambi fuggono
in cerca di altro, entrambi ritornano nella routine, ma Ulisse torna al calore della famiglia, Davis al gelo
della solitudine.
Nella scena finale - identica alla scena iniziale, a
sottolineare la vuota circolarità della vicenda e della vita – Davis esce dal
bar (lasciando il palco ad un giovanissimo Bob Dylan che avrà quello che lui non ha
avuto) e affronta nel vicolo un pestaggio che si è cercato nell’unico suo
futile ed inutile gesto di protesta.
È la presa d’atto del suo fallimento, del ripiegamento
passivo, della rinuncia ad esprimere l’istinto ribelle degli emarginati.
Pochi mesi dopo esploderà in America la voglia di
cambiamento che porterà all’elezione di Kennedy, all’affermarsi dei
movimenti per i diritti civili (con Malcom X, Angela Davis e M. Luther King),
al fenomeno hippy, alla contestazione studentesca.
Nel film ci sono momenti di acutissima emozione.
Struggente (sì, struggente) la scena in cui Davis, durante
una fugace visita, canta per il vecchio padre catatonico una “loro” canzone che
fa affiorare negli occhi immobili l’invisibile lampo dell’affetto antico.
Intensa la colonna sonora (quasi protagonista, come in Fratello dove sei?) curata dal
sessantaseienne T Bone Burnett, già collaboratore di Bob Dylan e curatore delle
colonne sonore de Il grande
Lebowski, Ladykillers e Fratello,
dove sei? (e – ora –
della serie True Detective).
Da brividi le ballate, su tutte Hang me, oh, hang me, (Impiccami)
replicata due volte.
Alcuni amici mi dicono che il film non convince perché
lento, sconclusionato, senza trama.
Per quanto riguarda la trama, lascio la parola a Joel Coen che
ha dichiarato: “Il film non ha una storia
o una trama, per questo abbiamo aggiunto il gatto. Sì, il film gira tutto
intorno al gatto!”.
Per il resto, sono convinto che il senso profondo e lo
straordinario valore di quest’ultima opera dei geniali fratelli Coen stia
proprio lì, nella splendida lentezza con la quale viene raccontata una vita che
si trascina inutilmente e nell’insensato invilupparsi di una storia senza
storia.
Omero mi ha intrigato il tuo avatar così contrapposto al tuo nome..
RispondiEliminaMa quando ho letto il tuo post inerente ad un film che avevo scritto anche nel mio blog, la curiosità del leggere è stata tutt'una.
Ottima recensione, da farmi vergognare rispetto alla mia( mi soffermavo più sulla musica avendo un blog prettamente musicale..),complimenti sinceri..
Ho letto finalmente qualcosa di diverso dal solito e ti ringrazio, mi sono iscritta sperando anche in un tuo ricambio...
http://rockmusicspace.blogspot.it/.
Sereno fine settimana!
Ricambio ... Avrai un nuovo lettore, ignorante e poco assiduo.
EliminaCiao
non l'ho visto...Non ho televisione...non vado al cinema causa età, spero in un passaggio su RAI !
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