sabato 12 aprile 2014

Funny Games di Michael Haneke (1997, con remake americano del 2007)


I bambini amano le fiabe truculente e hanno bisogno di vederle rappresentate per esorcizzare le loro inconsce paure. Vogliono credere – prendendo le distanze dal proprio lato oscuro - che la cattiveria esista ma viva fuori da loro e dal loro piccolo universo e che la malvagità si esprima lontano dai loro intimi rassicuranti confini. Vogliono sentire di orchi e streghe che perseguitano gli indifesi protagonisti delle storie, sapendo però di poter controllare il livello d’immedesimazione (e il terrore) regolandolo in rapporto alla capacità di tolleranza della paura; e assaporano i brividi nell’attesa dell’irrinunciabile finale, confortante e liberatorio, spesso già noto.
Non diverse sono le ragioni (e i bisogni e i meccanismi) per cui gli adulti amano storie e film in cui il male si esprime nelle più svariate forme e nelle più imprevedibili situazioni.
Da un po’ di tempo in qua, in particolare al cinema, i cattivi sono sempre più spietati, le razioni di malvagità propinate diventano sempre più massicce, le forme di crudeltà esibite oltrepassano i limiti del tollerabile. L’assuefazione si vince aumentano le dosi e la concentrazione della sostanza: gli horror diventano splatter; i gialli diventano thriller adrenalinici, i fantascientifici propendono al catastrofismo; nascono e si affermano nuovi sottogeneri imprevedibili come il pulp, il carcerario, il revenge movie (storie di vendette), l’hard boiled, lo slasher (con maniaci del coltello), l’exploitation e il blaxploitation (sesso e brutalità).
E nessun film violento, infine, anche fra quelli autoriali, ci consegna un finale consolatorio: gli happy end, come il “vissero cent’anni felici e contenti” della fiaba, guastano tutto, banalizzano la storia.

Ecco. Questo largo preambolo serve solo per sottolineare quanto Haneke sia distante anni-luce da questi stereotipi.  Il regista viennese è un raffinatissimo analizzatore della violenza: ne cerca ossessivamente le declinazioni, ne scruta le sfaccettature, ma le rappresentazioni che ne traccia sono lontanissime dai cliché delle favole (di Perrault o dei Grimm, per esempio), della letteratura in genere e della cinematografia, dove – in genere – il gusto dell’orrore è evidente, la messa in scena della cattiveria è esplicita, le ambientazioni sono cupe, i personaggi sono a una dimensione, gli esiti sono consolatori, il bene trionfa.

La trama di Funny games è semplicissima, quasi inconsistente: due bravi ragazzi - bamboccioni educati e puliti, goffi e petulanti, solo un po’ fastidiosamente invadenti ma sempre impeccabilmente rispettosi del bon ton e attenti all’esteriorità delle regole borghesi della convivenza sociale - entrano con un pretesto futile in una villetta lacustre e - in un susseguirsi di ferocissimi e sconvolgenti esercizi di malvagità - si trasformano con velocità sconcertante in sadici torturatori squilibrati, decisi a sterminare la famigliola borghese, una giovane coppia col loro bambino,
Si dice (è confortante pensare) che la violenza sia generata dall’irrazionalità, che la crudeltà nasca da un inceppamento della ragione. Ma dissesta il vedere due comunissimi ragazzotti che si perdono in chiacchiere futili prima di fracassare ossa, sorridono e ammiccano annunciando massacri ("Vogliamo scommettere che voi, diciamo in dodici ore, sarete tutti e tre morti?"), chiedono educatamente qualcosa da mangiare alle loro vittime terrorizzate, badano a non sporcarsi col sangue versato.

L’opera, pervasa da una sottilissima perfidia che attanaglia e devasta, suscita orrore e instilla angoscia pur non essendo un horror; è agghiacciante, anche se non mostra truci scene di violenza (l’episodio più efferato – l’uccisione di un bambino – avviene fuori campo). I cattivi (come ne Il nastro bianco) non hanno l’aria di cattivi; e non hanno atteggiamenti, sguardi o comportamenti che li connotino come tali; e nemmeno hanno ragioni (psicologiche, esistenziali, biografiche o sociali) per esserlo. La malvagità è immotivata e incomprensibile. Le vicende si dipanano dalla più tranquilla quotidianità, fino a quando scattano intoppi imprevedibili che si sviluppano in perversi meccanismi irrazionali. La paura che s’infila sotto la pelle delle vittime (e degli spettatori) non deriva, almeno inizialmente, dalla brutalità agita ma dall’incomprensibile coercizione, dalle minacce immotivate, dalla malvagità che incombe, senza ragione, senza ragioni.

Haneke non si limita a rappresentare la cattiveria pura: entra nel gioco a gamba tesa e si comporta nei confronti degli spettatori con un sadismo che appare più atroce e perfido di quello dei due matti: infatti, se Paul e Peter sequestrano la famigliola borghese per sfogare in piena libertà il loro morboso sadismo, il regista prima ingabbia gli spettatori e li mette di fronte alla rappresentazione della crudeltà gratuita, poi li immerge nel pozzo della disumanità costringendoli, con dei meccanismi narrativi raffinatissimi, a subire un processo d’immedesimazione che li conduce a sperimentare la stessa identica angoscia impotente delle vittime.
La spia rivelatrice di questo espediente (che diventa anche la chiave di lettura del senso generale del film) è il feroce inserto metafilmico costituito dalla scena in cui il Cattivo (l’altro cattivo appare come plagiato ed ha un ruolo di spalla) afferra un telecomando e preme il tasto rewind (“riavvolgimento indietro veloce”) per annullare l’assassinio del suo socio da parte di una delle vittime: una interpolazione bislacca e surreale che spiazza per un attimo e passa via senza attenuare il clima di oppressione crescente; una trovata registica che appare appiccicata male, immotivata, assurda (se non vuoi che uno dei cattivi muoia, non metterlo in sceneggiatura); una pensata che non è messa lì a caso e che quindi – a ben riflettere – non può che servire a rafforzare il senso di angoscia rimarcando l’impotenza totale delle vittime e sottolineando l’onnipotenza dei carnefici, padroni della vita e del tempo. Onnipotenza del tutto simile a quella del regista che ci inchioda alla sedia e ci tiene per la gola per 103 minuti nel film della versione austriaca o per 111 minuti in quella americana. Non mi sorprende – a riprova di questo – leggere della reazione di Wim Wenders che a Cannes abbandonò la sala nel corso della proiezione, incapace di accettare il malefico processo d’identificazione con le vittime e (ancor più) irritato dall’intollerabile e sadico soggiogamento operato dal collega su di lui “spettatore”.

Nel film ci sono citazioni cinefile raffinate (la situazione claustrofobica ricorda Ore disperate di William Wyler e i cattivi sono vestiti di bianco come i Drughi di Arancia meccanica); ma questo non allevia l’angoscia dello spettatore. Così come non si allenta la tensione quando il regista consente al Cattivo di guardare in macchina (e scrutare nel buio della sala, rivolgendosi a ognuno di noi, accidenti!) per interrogarci (e coinvolgerci, come complici) sulle possibili conseguenze delle sue decisioni perverse.  Anzi, anche questa infrazione al patto di finzione con la platea è un perfido e sottilissimo espediente per farci tutti convinti che la violenza che ci vede spettatori potrebbe vederci complici o attori, indifferentemente; e che potremmo – in determinate circostanze – subire gli stessi dolori delle vittime, ma potremmo anche – cambiate le carte – infliggerli con pari sadismi; perché ognuno di noi ha in sé l’imperscrutabile probabilità di trovarsi nella condizione di vittima ma anche la indecifrabile possibilità di essere carnefice.




  



Nessun commento:

Posta un commento