Ahmad sbarca a Parigi da Teheran per formalizzare
e concludere la pratica di divorzio con Marie dalla quale si è separato quattro
anni prima. È ospitato dall’ex-moglie farmacista nello scompigliato
appartamento della periferia parigina dove incrocia anche Samir (il compagno
subentrante, titolare di una lavanderia), Lucie e Léa (le due figlie - una
adolescente, l’altra bambina - che Marie ha avuto da una precedente relazione)
e Fouad (figlio di Samir e coetaneo di Léa).
Il suo arrivo scombussola i già difficili equilibri
del gruppo e provoca l’affiorare dei complicati ingorghi esistenziali di tutti:
quelli di Marie, innanzitutto, insoddisfatta e determinata a ricominciare ma
incapace di gestire l’intricata situazione in cui si è ficcata; quelli di
Lucie, che non perdona alla madre il carosello di figure maschili che le
vengono proposte e sottratte senza tener conto delle sue esigenze di stabilità
affettiva; e poi quelli di Samir, che è scisso fra Marie (dalla quale aspetta
un figlio) e la moglie (in coma per un tentato suicidio forse collegato alla
sua nuova relazione) e patisce insopprimibili gelosie di fronte ai banali segni
della antica e consuetudinaria intimità della ex-coppia; e ancora quelli del
ribelle Fouad, che - bisognoso di calori materni – vive con gelosie e rancorosi
sensi di colpa la sua condizione di bambino “quasi orfano”; e infine quelli
della piccola Léa che insegue con paziente rassegnazione i suoi confusi ideali
di serenità, disorientata dal caos che la circonda.
Anche lui, Ahmad - che potrebbe sembrare il deus ex machina della situazione, con la sua pazienza esemplare, la sua razionalità, il suo senso di giustizia, la sua capacità di mediazione, la sua straordinaria empatia, il suo senso di paternità (pur essendo l’unico adulto non-genitore) - viene risucchiato, scena dopo scena, nella matassa aggrovigliata che credeva di poter dipanare con una piccola formalità.
I due triangoli sghembi costituiti da tre adulti e tre minori s’intersecano in cerca di improbabili equilibri, disturbati in questo anche da due altri pesanti presenze-assenze costituite dalla moglie di Samir in coma e dal nascituro.
Anche lui, Ahmad - che potrebbe sembrare il deus ex machina della situazione, con la sua pazienza esemplare, la sua razionalità, il suo senso di giustizia, la sua capacità di mediazione, la sua straordinaria empatia, il suo senso di paternità (pur essendo l’unico adulto non-genitore) - viene risucchiato, scena dopo scena, nella matassa aggrovigliata che credeva di poter dipanare con una piccola formalità.
I due triangoli sghembi costituiti da tre adulti e tre minori s’intersecano in cerca di improbabili equilibri, disturbati in questo anche da due altri pesanti presenze-assenze costituite dalla moglie di Samir in coma e dal nascituro.
Ognuno dei protagonisti cerca la sua stabilità
attraverso piccoli movimenti di assestamento, ma ogni tentativo modifica
l’assetto generale e crea squilibri nuovi.
Quella che può sembrare la via d’uscita per uno,
diventa l’imbuto per altri.
Ognuno si trova in ogni momento nella confusa
impossibilità di trovare il modo di alleviare il sottile dolore che lo assilla:
la scelta che s’impone ad ogni biforcazione appare comunque inadeguata.
Impossibile trovare la giusta misura dei
rapporti.
Nessuna strategia pare funzionare: non le
diplomazie di Marie con i suoi uomini o l’alternarsi di severità o indulgenza
con le figlie; non la disponibilità di Samir o l’equilibrio paternalistico e
talvolta irritante di Ahmad (che si rivela più fragile di quanto non voglia
sembrare); non il ribellismo ricattatorio dell’inquieta Lucie o la fragile
caparbietà di Fuoad o la candida semplicità di Léa.
Gli equilibri precedenti l’arrivo di Ahmad si
reggevano solo sulla finzione, sull’accettazione ipocrita dello statu quo con
tutti i suoi equivoci, sulla consistenza epidermica dell’esistenza: nel momento
in cui si solleva un solo lembo della fragile pelle dell’apparenza, tutto si
scopre, in una reazione a catena incontrollabile. Una verità, per quanto
piccola, ne smuove un’altra. La mimetizzazione cessa di funzionare. Il quadro
si scompone. L’inquietudine sopita cresce e dilaga.
I protagonisti, illusi tutti di poter
voltare una pagina nella loro esistenza, si accorgono che il passato non è mai
del tutto passato; che il presente ne è la stratificazione, conseguenza del
garbuglio che si è vissuto; che nessun rapporto è mai liquidabile
definitivamente da una firma sull’atto di divorzio, da una perdita, da un
rapporto nuovo, da una fuga, da una rimozione; che per aggiustare la catena
saltata di una bicicletta è necessario allentarla, recuperarla, manovrare
avanti/indietro, evitare forzature.
E tutti avvertono confusamente che la
verità non si scrive con la lettera maiuscola; che non è una e pura, ma un
mosaico composto da tante piccole verità e da grandi bugie intrecciate ad
accompagnare e sostanziare le vite; e non deve essere letta, ma interpretata; e
non appare mai lucida, fredda e fissa come uno specchio, ma si modifica e
rimanda immagini sovrapposte e fuse insieme, figure frante e sfaccettate,
abbagli e zone d’ombra.
La potenza del film – che pure è lunghissimo e determina inevitabili cali di attenzione – può essere pesata dall’altissima inquietudine emotiva che pervade la sala e dall’assoluta e costante concentrazione degli spettatori durante la proiezione. Le microvicende psicologiche dei personaggi hanno la capacità di creare tensioni opprimenti, simili a quelle di un triller, senza bisogno di ridondanze registiche, colpi di scena drammatici, furbizie tecnologiche, montaggi frenetici, musiche diegetiche.
Geniale – e coerente con l’assunto principale del film – il finale irrisolto.
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