mercoledì 18 dicembre 2013

Il passato (2013) di Asghar Farhadi

Ahmad sbarca a Parigi da Teheran per formalizzare e concludere la pratica di divorzio con Marie dalla quale si è separato quattro anni prima.  È ospitato dall’ex-moglie farmacista nello scompigliato appartamento della periferia parigina dove incrocia anche Samir (il compagno subentrante, titolare di una lavanderia), Lucie e Léa (le due figlie - una adolescente, l’altra bambina - che Marie ha avuto da una precedente relazione) e Fouad (figlio di Samir e coetaneo di Léa).
Il suo arrivo scombussola i già difficili equilibri del gruppo e provoca l’affiorare dei complicati ingorghi esistenziali di tutti: quelli di Marie, innanzitutto, insoddisfatta e determinata a ricominciare ma incapace di gestire l’intricata situazione in cui si è ficcata; quelli di Lucie, che non perdona alla madre il carosello di figure maschili che le vengono proposte e sottratte senza tener conto delle sue esigenze di stabilità affettiva; e poi quelli di Samir, che è scisso fra Marie (dalla quale aspetta un figlio) e la moglie (in coma per un tentato suicidio forse collegato alla sua nuova relazione) e patisce insopprimibili gelosie di fronte ai banali segni della antica e consuetudinaria intimità della ex-coppia; e ancora quelli del ribelle Fouad, che - bisognoso di calori materni – vive con gelosie e rancorosi sensi di colpa la sua condizione di bambino “quasi orfano”; e infine quelli della piccola Léa che insegue con paziente rassegnazione i suoi confusi ideali di serenità, disorientata dal caos che la circonda.
Anche lui, Ahmad - che potrebbe sembrare il deus ex machina della situazione, con la sua pazienza esemplare, la sua razionalità, il suo senso di giustizia, la sua capacità di mediazione, la sua straordinaria empatia, il suo senso di paternità (pur essendo l’unico adulto non-genitore) - viene risucchiato, scena dopo scena, nella matassa aggrovigliata che credeva di poter dipanare con una piccola formalità.
 
I due triangoli sghembi costituiti da tre adulti e tre minori s’intersecano in cerca di improbabili equilibri, disturbati in questo anche da due altri pesanti presenze-assenze costituite dalla moglie di Samir in coma e dal nascituro.
Ognuno dei protagonisti cerca la sua stabilità attraverso piccoli movimenti di assestamento, ma ogni tentativo modifica l’assetto generale e crea squilibri nuovi.
Quella che può sembrare la via d’uscita per uno, diventa l’imbuto per altri.
Ognuno si trova in ogni momento nella confusa impossibilità di trovare il modo di alleviare il sottile dolore che lo assilla: la scelta che s’impone ad ogni biforcazione appare comunque inadeguata. 
Impossibile trovare la giusta misura dei rapporti. 
Nessuna strategia pare funzionare: non le diplomazie di Marie con i suoi uomini o l’alternarsi di severità o indulgenza con le figlie; non la disponibilità di Samir o l’equilibrio paternalistico e talvolta irritante di Ahmad (che si rivela più fragile di quanto non voglia sembrare); non il ribellismo ricattatorio dell’inquieta Lucie o la fragile caparbietà di Fuoad o la candida semplicità di Léa.
Gli equilibri precedenti l’arrivo di Ahmad si reggevano solo sulla finzione, sull’accettazione ipocrita dello statu quo con tutti i suoi equivoci, sulla consistenza epidermica dell’esistenza: nel momento in cui si solleva un solo lembo della fragile pelle dell’apparenza, tutto si scopre, in una reazione a catena incontrollabile. Una verità, per quanto piccola, ne smuove un’altra. La mimetizzazione cessa di funzionare. Il quadro si scompone. L’inquietudine sopita cresce e dilaga.
 I protagonisti, illusi tutti di poter voltare una pagina nella loro esistenza, si accorgono che il passato non è mai del tutto passato; che il presente ne è la stratificazione, conseguenza del garbuglio che si è vissuto; che nessun rapporto è mai liquidabile definitivamente da una firma sull’atto di divorzio, da una perdita, da un rapporto nuovo, da una fuga, da una rimozione; che per aggiustare la catena saltata di una bicicletta è necessario allentarla, recuperarla, manovrare avanti/indietro, evitare forzature.
 E tutti avvertono confusamente che la verità non si scrive con la lettera maiuscola; che non è una e pura, ma un mosaico composto da tante piccole verità e da grandi bugie intrecciate ad accompagnare e sostanziare le vite; e non deve essere letta, ma interpretata; e non appare mai lucida, fredda e fissa come uno specchio, ma si modifica e rimanda immagini sovrapposte e fuse insieme, figure frante e sfaccettate, abbagli e zone d’ombra.

 La potenza del film – che pure è lunghissimo e determina inevitabili cali di attenzione – può essere pesata dall’altissima inquietudine emotiva che pervade la sala e dall’assoluta e costante concentrazione degli spettatori durante la proiezione. Le microvicende psicologiche dei personaggi hanno la capacità di creare tensioni opprimenti, simili a quelle di un triller, senza bisogno di ridondanze registiche, colpi di scena drammatici, furbizie tecnologiche, montaggi frenetici, musiche diegetiche. 

Geniale – e coerente con l’assunto principale del film – il finale irrisolto.

 


Nessun commento:

Posta un commento