Kang-do è un feroce teppista che riscuote i
debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di
una casa in decadimento. Il quartiere in
cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata
dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I
suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati
in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti,
rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è
impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume,
è figlio e conseguenza di questo disfacimento. Nessuno lo ha accudito, da nessuno
ha avuto cure e affetti; per nessuno ha affetti e attenzioni: è selvatico, misantropo,
chiuso, afasico, ottuso, impietoso. Se i debitori dello strozzino non rispettano
la scadenza, li massacra freddamente, li strazia senza pietà, li sfigura e li
mutila per incassare i soldi dell’assicurazione.
Un giorno si presenta da lui Mi-sun, una
piccola dolce donna che dice di essere sua madre. Con
tremore ed afflizione gli chiede perdono per averlo abbandonato, con ostinata
dolcezza tenta di offrirgli le tenerezze negate, con pazienza accoglie la sua
rabbiosa disperazione. L’implacabile seviziatore non le crede, la maltratta, la
violenta, la caccia: lei insiste, subisce, ritorna; si addossa le colpe della
infelicità e della cattiveria del ragazzo, accetta la condanna dell’emarginazione
e del disprezzo, ma si installa silenziosa in casa, riassetta, cuce, fa la
spesa, imbandisce i pasti e svolge quieta le umili mansioni di una madre
premurosa senza pretendere altro.
A poco a poco l’irremovibile Kang-do cede. La
sua incolmabile rabbia, che non è altro che ineliminabile disperazione, trova
in quella pacata presenza femminile il risarcimento per amorevolezze mai conosciute.
Non si lascia andare, non fa trapelare emozioni, non arriva ad esprimere
sentimenti: la sua coriacea anaffettività non glielo consente; ma si abitua alle
premure e si affeziona a quell’ombra muta fino al punto di accorgersi che non
vuole, non può fare a meno di lei.
Qualcuno (?) entrerà nelle crepe di questa imprevedibile
fragilità per applicare la pena del contrappasso, compire la vendetta ed
infliggere a Kang-do intrappolato una condanna risolutiva, uccidendogli l’anima.
Appare evidentissima, in una lettura in chiave
socio-politica, la feroce critica al mito del progresso e della modernità che
infesta il mondo senza rispetto per gli individui, le culture tradizionali, le relazioni,
la giustizia sociale; inappellabile è la condanna ad un regime che celebra i
fasti del capitalismo globale sommergendo i deboli e lasciandoli ai margini del
benessere, massacrati da sacrifici inutili e dissanguati da mafie e usure.
L’ambientazione cupa, le inquadrature claustrofobiche e i colori lividi esasperano
la disperazione di questa accusa.
Speculare a quella sociale è la
rappresentazione delle interiorità. Anche le anime dei personaggi sono perse,
si portano dentro il deserto, sono immerse nell’infelicità e oppresse dalla
consapevolezza di non avere sbocchi. I poveri lo sono fino all’ottundimento incosciente.
Kang-do è inconsapevolmente devastato dalla disperazione che sfocia in furia
disumana. La donna nasconde, sotto una maschera di pietà, la voglia di vendetta
di un’anima morta dentro, impietosa e spietata fino alla follia.
La storia è disarmonica e un po’ sconclusionata,
la trama è improbabile e svolta in modi troppo ruvidi ed essenziali, le vicende
appaiono spesso incongruenti, i personaggi hanno evoluzioni incomprensibili e sono
tratteggiati sbrigativamente con enfatica crudezza, senza sfumature; il pathos
sconfina nell’eccesso; i dialoghi a tratti sono disturbanti per dei didascalismi
inutili e quasi ridicoli, le musiche in alcuni momenti debordano. Il manifesto
poi, che storpia il titolo originale aggiungendo un accento ed una citazione sviante,
è davvero deplorevole.
Ma l’insufficienza di rifiniture compromette
appena la carica del film che comunque mantiene l’andamento insensato di una
tragedia greca, l’inesplicabile assolutezza di un’epopea, l’immenso fascino illogico
del mito (la nemesi, Edipo, Eros e Thanatos, la catabasi senza ritorno) che
tocca le corde irrazionali del profondo e sconcerta.
Nel film – insolitamente debordante per
l’essenziale regista coreano – si intrecciano aggrovigliati i temi del delitto
e del castigo (Dostoevskij), del male (anzi, del Male) e dell’espiazione, della
colpa e della ritorsione. Con l’aggiunta di variazioni sull’amore perduto e sull’amore
negato, sull’odio e sul sacrificio, sulla dannazione e sulla redenzione. E poi
c’è incomunicabilità, esclusione, rabbia, sconfitta, segreti e bugie,
ambiguità, morte. Manca solo, appunto,
la pietà.
Ho cercato il manifesto e sono rimasta sorpresa. Dalla tua recensione non sembra meritare il Leone d'oro... mi hai incuriosito, cercherò il film.
RispondiEliminaCiao Om da A
Ho visto il film e non ti nascondo l'inquietudine che ho provato nel vederlo. E' un film duro, sconvolgente, difficile da accettare, ma l'ho trovato bellissimo proprio per quei graffi che ti lascia dentro. "Manca solo, appunto, la pietà."
RispondiEliminaCiao Om
Non l'ho visto. Apprezzo molto la cinematografia cinese e giapponese.Meno quella coreana.
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