Si esce dalla
sala con la sensazione ubriaca di aver assistito ad un esercizio di stile accumulatorio
e debordante, barocco-partenopeo, sconnesso e ogni tanto surreale, pretenziosamente
disorganico ed esagerato, troppo saturo, troppo intenso, troppo tutto.
Ma poi ci si
pensa e nasce il sospetto che sia il troppo, appunto, (ed il vuoto) a
costituire l’essenza del film.
Jep
Gambardella (Toni Servillo) è un ex-romanziere che come Salinger vive di
rendita per un successo giovanile che lo ha immesso nel giro della “bella”
società romana, piccolo-borghese e pseudo-intellettuale.
Ha però sessantacinque
anni suonati e si ritrova stanco e disincantato a consumare giornate assurde, bazzicando
una cinica microsocietà di ex come lui (o quasi ex) che tamponano le diverse
decadenze con la smania d’esserci, camuffano il vuoto sotto le maschere
avvizzite di se stessi, esorcizzano l’anonimato come la morte, si eccitano di
eccentricità quotidiane, si alimentano bulimicamente di voglie consunte, escogitano
consuetudini per fuggire la noia delle consuetudini, costruiscono occasioni per
uscire e fingono di vivere per non vedere la devastazione che dentro li
disgrega, fra feste freacks con trenini cafonal e sniffo, vernissage radical
chic e cene in piedi, escort e madri teresedicalcutta, shopping compulsivi e
funerali eccentrici, celebrazioni della subcultura e allucinazioni èlitarie, in
un cicaleccio continuo, maligno e inconcludente, inutilmente caustico.
Ai margini di
questo universo alla deriva spuntano, rare e marginali, figure quasi “normali”
(Ferilli e Verdone, per esempio), capaci di residue emozioni, che nella loro
candida ingenuità appaiono però patetiche quanto gli schizzati che le
circondano.
Jep è
vagamente consapevole della sua incompiutezza e del declino: per sopravvivere
alla disperazione dell’innegabile vecchiezza e dell’impossibile rigenerazione si
rifugia nella nostalgia di un flashback adolescente; sa – innanzitutto – che
non ha più nulla da scrivere; e sa che per scampare non gli basta quell’eccitazione
frenetica che fa durare gli altri (e che lui disprezza senza saperne prendere
le distanze): per questo si lascia intridere da un sordo sconforto, attraversa
i luoghi dell’inutilità con in corpo una rabbia stanca e non resiste (residuo
di coscienza?) all’insopprimibile voglia di scoprire le carte, svelare i
trucchi, rompere gli specchi, scoperchiare il fetore degli altri forse anche per
annusare masochisticamente il proprio.
Continua a
far parte di quel “fracico” mondo, ma si lava la coscienza comportandosi da osservatore
esterno, infelice ed annoiato; e si fa entomologo distratto che stuzzica le sue
vittime con bisturi ed elettrodi, senza cautele o reticenze, solo per vederne
le reazioni, o forse per controllarne la residua vitalità, non certo per trasferire
in loro la sua esclusiva ed escludente consapevolezza o per tentare improbabili
redenzioni.
La macchina
da presa, quando inquadra le persone (o, meglio, i personaggi) è assalita dalla
frenesia di invadere visi disfatti e corpi artefatti, di smascherare derive e
meschinità, di scrutare vacuità vertiginose e beceraggini; l’obiettivo
intrappola i bipedi come topi nel labirinto, colleziona casi patologici come un
manuale di psichiatria, fa trapelare il senso di morte; quando invece esplora gli
spazi, ricerca lo struggente incanto di angoli nascosti, tramonti immensi e fascinosi,
palazzi e chiese, fontane e giardini che fanno da contraltare con la loro
“grande bellezza” al brulicume osceno dei parassiti.
Sorrentino insegue
in questo film ispirazioni ed ascendenze nobili sia letterarie che cinematografiche.
Fra le pieghe
del film si intravvede l’infelice Leopardi col suo sentimento del nulla, Flaubert
(per lo stile dispersivo “che fa parlar le cose” ed il tema dello svanire dei
sogni), Sartre con la sua ossessione di incompiutezza (“L’essere e il nulla”), Camus
per il senso dell’assurdo che incombe e la condizione di alienazione; ed infine
il disperato Céline, espressamente citato (“Viaggio al termine delle notte”
sarebbe stato un magnifico titolo per questo penoso e magnifico film).
Fra gli
autori di cinema a cui Sorrentino si ispira, anche con esplicite citazioni,
troviamo Scola (quello de La terrazza
che galleggia come il Titanic prima di essere inghiottita dagli abissi, quello
che sa scorticare come nessun altro la vacuità degli intellettuali), ma troviamo
soprattutto il Fellini – quello de La
dolce vita e di Roma – parafrasato
nel protagonista (Jep è un Marcello, ancora più vecchio e stanco, più annoiato
e disgustato), replicato nel clima di decadenza (qui ai limiti della
putrefazione), richiamato nelle inquadrature e nel montaggio, riecheggiato nella
galleria dei personaggi bislacchi e grotteschi (suorine, cardinali
insignificantemente emaciati, femmine pingui) ed in alcune scene
onirico-paradigmatiche (mostri marini, sculture gigantesche, apparizioni di
irreali giraffe e inquietanti trampolieri, peregrinazioni notturne).
Una scena
paradigmatica: quella estenuante della repellente sfilata dei visi prolassati
davanti al chirurgo estetico che impugna la siringa di tossina botulinica, come
in un horror di serie b.
Una figura
sublime: quella onnipresente e defilata del poeta, ombroso e taciturno.
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