martedì 23 luglio 2013

La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino

Si esce dalla sala con la sensazione ubriaca di aver assistito ad un esercizio di stile accumulatorio e debordante, barocco-partenopeo, sconnesso e ogni tanto surreale, pretenziosamente disorganico ed esagerato, troppo saturo, troppo intenso, troppo tutto.
Ma poi ci si pensa e nasce il sospetto che sia il troppo, appunto, (ed il vuoto) a costituire l’essenza del film.

Jep Gambardella (Toni Servillo) è un ex-romanziere che come Salinger vive di rendita per un successo giovanile che lo ha immesso nel giro della “bella” società romana, piccolo-borghese e pseudo-intellettuale.
Ha però sessantacinque anni suonati e si ritrova stanco e disincantato a consumare giornate assurde, bazzicando una cinica microsocietà di ex come lui (o quasi ex) che tamponano le diverse decadenze con la smania d’esserci, camuffano il vuoto sotto le maschere avvizzite di se stessi, esorcizzano l’anonimato come la morte, si eccitano di eccentricità quotidiane, si alimentano bulimicamente di voglie consunte, escogitano consuetudini per fuggire la noia delle consuetudini, costruiscono occasioni per uscire e fingono di vivere per non vedere la devastazione che dentro li disgrega, fra feste freacks con trenini cafonal e sniffo, vernissage radical chic e cene in piedi, escort e madri teresedicalcutta, shopping compulsivi e funerali eccentrici, celebrazioni della subcultura e allucinazioni èlitarie, in un cicaleccio continuo, maligno e inconcludente, inutilmente caustico.
Ai margini di questo universo alla deriva spuntano, rare e marginali, figure quasi “normali” (Ferilli e Verdone, per esempio), capaci di residue emozioni, che nella loro candida ingenuità appaiono però patetiche quanto gli schizzati che le circondano.
Jep è vagamente consapevole della sua incompiutezza e del declino: per sopravvivere alla disperazione dell’innegabile vecchiezza e dell’impossibile rigenerazione si rifugia nella nostalgia di un flashback adolescente; sa – innanzitutto – che non ha più nulla da scrivere; e sa che per scampare non gli basta quell’eccitazione frenetica che fa durare gli altri (e che lui disprezza senza saperne prendere le distanze): per questo si lascia intridere da un sordo sconforto, attraversa i luoghi dell’inutilità con in corpo una rabbia stanca e non resiste (residuo di coscienza?) all’insopprimibile voglia di scoprire le carte, svelare i trucchi, rompere gli specchi, scoperchiare il fetore degli altri forse anche per annusare masochisticamente il proprio.
Continua a far parte di quel “fracico” mondo, ma si lava la coscienza comportandosi da osservatore esterno, infelice ed annoiato; e si fa entomologo distratto che stuzzica le sue vittime con bisturi ed elettrodi, senza cautele o reticenze, solo per vederne le reazioni, o forse per controllarne la residua vitalità, non certo per trasferire in loro la sua esclusiva ed escludente consapevolezza o per tentare improbabili redenzioni.

La macchina da presa, quando inquadra le persone (o, meglio, i personaggi) è assalita dalla frenesia di invadere visi disfatti e corpi artefatti, di smascherare derive e meschinità, di scrutare vacuità vertiginose e beceraggini; l’obiettivo intrappola i bipedi come topi nel labirinto, colleziona casi patologici come un manuale di psichiatria, fa trapelare il senso di morte; quando invece esplora gli spazi, ricerca lo struggente incanto di angoli nascosti, tramonti immensi e fascinosi, palazzi e chiese, fontane e giardini che fanno da contraltare con la loro “grande bellezza” al brulicume osceno dei parassiti.

Sorrentino insegue in questo film ispirazioni ed ascendenze nobili sia letterarie che cinematografiche.
Fra le pieghe del film si intravvede l’infelice Leopardi col suo sentimento del nulla, Flaubert (per lo stile dispersivo “che fa parlar le cose” ed il tema dello svanire dei sogni), Sartre con la sua ossessione di incompiutezza (“L’essere e il nulla”), Camus per il senso dell’assurdo che incombe e la condizione di alienazione; ed infine il disperato Céline, espressamente citato (“Viaggio al termine delle notte” sarebbe stato un magnifico titolo per questo penoso e magnifico film).
Fra gli autori di cinema a cui Sorrentino si ispira, anche con esplicite citazioni, troviamo Scola (quello de La terrazza che galleggia come il Titanic prima di essere inghiottita dagli abissi, quello che sa scorticare come nessun altro la vacuità degli intellettuali), ma troviamo soprattutto il Fellini – quello de La dolce vita e di Roma – parafrasato nel protagonista (Jep è un Marcello, ancora più vecchio e stanco, più annoiato e disgustato), replicato nel clima di decadenza (qui ai limiti della putrefazione), richiamato nelle inquadrature e nel montaggio, riecheggiato nella galleria dei personaggi bislacchi e grotteschi (suorine, cardinali insignificantemente emaciati, femmine pingui) ed in alcune scene onirico-paradigmatiche (mostri marini, sculture gigantesche, apparizioni di irreali giraffe e inquietanti trampolieri, peregrinazioni notturne).

Una scena paradigmatica: quella estenuante della repellente sfilata dei visi prolassati davanti al chirurgo estetico che impugna la siringa di tossina botulinica, come in un horror di serie b.
Una figura sublime: quella onnipresente e defilata del poeta, ombroso e taciturno.











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