Michele (Luigi Lo Cascio) è un giovane architetto siciliano che
ha scelto di abitare a Siena, città ideale, a misura d’uomo, nella quale è
possibile convivere in armonia con la natura. Da ecologista convinto (con
qualche tratto maniacale) e con accorgimenti creativi (talvolta sconcertanti) tenta
di trascorrere un anno alternativo ad impatto zero: non consuma energia
elettrica (anzi, la produce, pedalando), recupera ed utilizza l’acqua piovana; si
sposta a piedi o in bicicletta; combatte con spirito missionario una sua
personale battaglia contro gli sprechi, il fumo, l’inciviltà, il pressapochismo
ed il consumismo superficiale.
Un piccolo incidente stradale lo mette in una situazione un
po’ intricata nella quale s’impegola sempre più a causa della sua cristallina
trasparenza, dell’incapacità ad accettare compromessi, della repulsione intransigente
verso scappatoie.
Questo tenace attaccamento alla verità e la sua stessa
innocenza lo rendono ancora più incriminabile; anche la stranezza del suo stile
di vita (estraneità) aggrava i sospetti degli inquirenti (inquisitori) che
guardano con diffidenza questo alieno (alienato) che non conosce le regole
della convivenza (convenienza).
Un tipo così non solo deve dimostrare la sua incolpevolezza
ma è tenuto anche a giustificare la sua “anormalità” che ai normali, a quelli
che stanno alle regole del gioco, appare esasperante, ai limiti del masochismo.
Ma Michele è un idealista testardo e rigoroso, un rigido
utopista che non baratta la coerenza con la convenienza: abituato ad affrontare
l’insofferenza e i dileggi dei colleghi senza fare una piega, non ammette il
ricorso a sotterfugi; addestrato a resistere alla commiserazione dei vicini, non
accetta di assecondare comportamenti ambigui; possiede la quieta energia che
serve per affrontare i sospetti dei poliziotti malfidenti e le insinuazioni
degli investigatori.
Come l’Idiota dostoevskiano (o come l’ingenuo e puro Aleksej
Karamazov) Michele è buono, limpido, puro di cuore: dice sempre la verità,
anche quando non gli conviene. Resiste e sfida le pressioni di avvocati
azzeccagarbugli e di giudici diffidenti. Sceglie la linea del candore. Mantiene
un comportamento coerente e lineare, anche quando gliene derivano danni.
Rifiuta l’omologazione. Non conosce l’opportunismo, non riesce nemmeno a
immaginare che sia possibile mentire per ottenere vantaggi. E affronta
stoicamente, con sconforto e stupore, le conseguenze della sua linea di difesa
che si basa sull’inflessibile sincerità, rimandando ad un inevitabile domani il
momento in cui sarà necessario prendere consapevolezza che la città ideale non
è altro che un luogo mentale dentro cui è bello galleggiare prima di essere inghiottiti
dal pantano della realtà.
La regia è ambiziosa, non ordinaria, leggera e matura nello
stesso tempo.
Lo Cascio, autore anche della ottima sceneggiatura, si muove
abilmente in bilico fra quotidianità e assurdo. Alcuni momenti assumono la irreale
colorazione del grottesco o sfumano nell’onirico. La trama labirintica e certe
situazioni insensate, le atmosfere buie e claustrofobiche ed alcuni dialoghi
lunari inducono a cercare paragoni con Kafka, Pirandello, Sciascia.
Sorprendente la raffigurazione dei personaggi di contorno,
tutti appena abbozzati ma vividi nella loro caratterizzazione; tutti pensati –
e sufficientemente capaci, pur nelle loro effimere apparizioni – di rivelarci
angolazioni sostanziali della personalità del protagonista: il poliziotto infatti
palesa la ritrosia di Michele (paesano spaesato) a cercare accomodamenti in
nome della comune sicilianità; la misteriosa statuaria inquilina (inquietante) svela
le immaginazioni erotiche dell’apparentemente algido architetto e la sua paura
ad abbandonarsi alle emozioni (sublime la scena in cui lei bussa inutilmente
alla sua porta); la vecchia mamma dolente e ansiosa (interpretata dalla madre
di Lo Cascio) ci dice tutto dei tenaci legami familiari che sopravvivono alle
urgenze di emancipazione; e l’avvocato intrallazzatore di Palermo (interpretato
dallo zio del regista) rimarca l’avversione di Lo Cascio per la furbizia (e per
la vittoria) a scapito della verità.
Efficaci le predominanti scene notturne, a dirci con estrema
potenza che la città ideale evocata dal titolo è in verità un covo oscuro
abitato da infidi esseri impegnati a mentire a se stessi e agli altri.
Singolare la scena finale, con i giovani commessi di
tribunale impegnati a lanciarsi faldoni di archivio rimpallandosi i destini in
essi contenuti.
Coerentissimo il finale, sospeso. Tutti sappiamo quali sia
la conclusione della storia di chi parte alla ricerca della verità.
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