La vicenda è semplice.
Siamo nel 1858, in Texas (e dove sennò): il cacciatore di taglie King
Schultz (Christoph Waltz) libera lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) per farsi affiancare nella
cattura di due pericolosi furfanti; in cambio lo aiuterà a rintracciare e
liberare la moglie tenuta in schiavitù da Calvin Candie
(Leonardo DiCaprio), proprietario di piantagioni nel Mississippi e allevatore
di lottatori.
Tarantino, con la cialtronaggine che lo caratterizza e con la sgangherata
vitalità che attraversa tutti i suoi film, si diverte un’altra volta a
replicare una storia balorda caricandola parossisticamente di esagerazioni. Dopo
il colpo al razzismo hitleriano con The
Inglourious Basterds
(vagamente ispirato a Quel maledetto treno blindato
di Castellari, del 1978, che nella fase
di pre-produzione si intitolava Bastardi senza gloria ed era stato distribuito in America col
titolo di The Inglorious Bastards), arriva quello al razzismo di casa (ispirato sempre ad un
film nostrano, il Django di Corbucci
del 1966, che vedeva Franco Nero nel ruolo protagonista).
La trama archetipa
però è un pretesto, non un modello: Tarantino se ne libera presto per
sviluppare storie assolutamente originali, col suo altrettanto personale e riconoscibilissimo
marchio di fabbrica. Anche se poi – da cinefilo onnivoro e bulimico – non si
trattiene dallo spargere nella storia, per scelta o per riconoscenza, mille altri
rimandi al nostro cinema di serie B (frullando col western anche altri
sottogeneri noir, horror, poliziotteschi, vampireschi, fantascientifici, peplum
e buttando l’occhio perfino, forse, sui “documentari” razzisti Africa addio e Addio zio Tom del duo Jacopetti & Prosperi) e si diverte ad
infarcire il film con mille esplicite citazioni, omaggi, indizi, strizzate
d’occhio: come la grafica dei titoli di testa, l’uso dell’inquadratura o degli
zoom, il ralenty, gli sguardi, le carrettate di morti (a cui, di suo, il
Tarantino-splatter aggiunge litri il sangue), il cameo di Franco Nero e – last but not least – le musiche (il Bacalov del
primo Django o la orecchiabile traccia de Lo
chiamavano Trinità con il relativo trotterellare buffo del cavallo).
Quentin è un regista ridondante, barocco: cerca
l’enfasi, ha una fantasia ipertrofica, ama l’esasperazione dei toni e in ogni scena si pone il problema di cosa inventarsi di
straripante per fare in modo che lo spettatore venga sorpreso, sbalordito,
spiazzato. (“È
del poeta il fin la meraviglia, … chi non sa far stupir, vada alla striglia!” diceva il cav. Marino agli inizi del ‘600).
Il suo gusto parodistico però è godibilissimo, i suoi eccessi sono
sempre strabilianti, come stupefacente è la disinvoltura con cui inserisce sistematicamente
il disequilibrio fra i comportamenti strampalati dei personaggi e le circostanze
storiche delle ambientazioni.
Il successo del regista
americano, diciamocela tutta, è anche dovuto alla sua capacità di fidelizzare
un pubblico che si aspetta le esagerazioni, vuole la sbracataggine e gli
perdona ogni mascalzonata, anche (o soprattutto) perché Tarantino ha il grandissimo
pregio di avere l’aria di uno che non si prende sul serio e sa mescolare con
sapienza l’ironia e l’autoironia.
Superba
l’interpretazione esagerata di Christoph Waltz, risoluto bounty killer
dal linguaggio colto e pomposo e dai comportamenti ostentatamente
raffinati. Ottimi il sadico arrogante Di Caprio, lo “scatenato” Jamiie Foxx, la
dolente quasi assente Kerry Washington, il viscido Samuel L. Jackson
imbolsito e zoppo.
Geniale l’esplosivo cameo del regista nelle parti di un
corpulento negriero un po’ coglione.
Esilarante la
sequenza dedicata al Ku Klux Klan, con il dibattito dei cavalieri mascherati
sulla scarsa funzionalità dei cappucci.
Aspettiamo la
versione lunga.
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