Il film di Nichols racconta la paura. La paura che ha le origini più disparate e può essere spiegata e sviscerata con strumenti sociologici e psicologici, storici e filosofici, etnografici e politici, etici e teologici, semiologici e psicanalitici; ma che può essere raccontata solo dal cinema, unico strumento capace di rappresentare le ombre della caverna, unico luogo in cui si possono riprodurre i sogni e liberare le ossessioni, lenzuolo impalpabile capace di avvolgere l’essenza vaga delle sensazioni indescrivibili.
La trama è scarna.
Curtis LaForche (Michael Shannon) vive in una tranquilla cittadina dell’Ohio, ha una bella casa, una moglie adorabile (Jessica Chastain), una splendida bambina, un buon lavoro e amici disponibili.
Sotto questa apparente normalità però covano incontrollabili grovigli; e sopra si addensano minacciose nubi gonfie e nere che annunciano l’uragano.
Curtis ha paura. Ha paura degli uragani e delle devastazioni che possono distruggere il suo piccolo sereno mondo e annientare le sicurezze faticosamente conquistate. E la paura incontrollabile alimenta gli incubi notturni; gli incubi generano angosce; le angosce producono ossessioni, fobie, terrore, panico; il sospetto di soffrire paranoia o di schizofrenia (come sua madre) sovraccarica lo stato d’inquietudine e scatena il dissesto definitivo.
Curtis si convince che le sue visioni siano istintuali e premonitrici, e decide di sacrificare tutto – lavoro, risparmi, affetti – per scavare un rifugio antitornado e garantire la sopravvivenza alla sua famiglia: ma per salvare quel che ha, paradossalmente, distrugge tutto.
Il buco sotterraneo nel giardinetto di casa (il dentro) e il cielo nero con le nuvole gonfie di pioggia (il fuori) sono la rappresentazione efficace delle inquietudini indecifrabili (non solo quelle tipicamente americane) che disgregano i rapporti sociali e assillano gli individui; metafora forte delle paure private per quel nemico che ognuno di noi alleva in sé (orribile quanto più profondo) e per le minacce esterne reali o paventate (terribili quanto più invisibili); immagine viva del panico ancestrale diventato memoria collettiva, delle incertezze esistenziali e della apprensione sociale per il futuro, delle angosce che nascono dagli intimi squilibri e dal terrore comune per la catastrofe incombente e per l’apocalisse.
Curtis, nella sua ossessione, percepisce lucidamente questo doppia minaccia, interna ed esterna: e mentre per quella esterna scava un rifugio sotterraneo (per proteggersi è necessario, innanzitutto, separarsi e barricarsi), per quella interna cerca, sia pure con minor convinzione, aiuti terapeutici che, secondo le teorie psicanalitiche, si concretizzano in una forma di viaggio interiore, nell’inconscio, paragonabile allo scavo.
Nichols sa abilmente intrecciare la quotidianità con gli incubi, l’oggettività con le allucinazioni; e questa confusione scombussola lo spettatore che – come il protagonista – fa fatica a distinguere la realtà diurna con l’irrealtà notturna: ad un certo punto non si capisce più se i tuoni ed i fulmini siano effettivi o immaginati, se gli oscuri stormi che attraversano il cielo siano concreti oppure fantasmi che tracciano macchie metamorfiche oscuramente premonitrici, se sia il cane che sta impazzendo o il padrone, se i comportamenti aggressivi di Curtis siano la causa o piuttosto la reazione ai comportamenti aggressivi degli altri.
La notte nel rifugio segna l’acme della follia. Anche lo “spettatore” viene risucchiato dalle ossessioni e si ritrova sotterrato e protetto, indeciso se sbirciare fuori dal bunker o restare dentro, incerto per quel che troverà oltre la botola.
Il coperchio del rifugio si apre su un cielo abbacinante. Attorno ci sono i segni di un comune temporale. Se avessimo trovato fuori dal rifugio le conseguenze anche più modeste di un tornado distruttivo (di quelli che con una certa frequenza imperversano negli States), sarebbe stata una delusione: i limiti di questa esile trama – che racconta una storia in cui non succede niente – sono nello stesso tempo i pregi di questo grande film, perfettamente centrato sulla terrificante inconsistenza della paura.
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