1940. I
Tedeschi invadono il Belgio e si preparano a dilagare in Francia. Dalle Ardenne
e da tutte le zone di confine destinate a diventare zona di guerra, parte un
imponente flusso di profughi.
L’elettrotecnico
Marcel con la sua famiglia riesce a trovar posto su un treno diretto verso
ovest: la moglie incinta e la figlia su un vagone passeggeri, lui stipato con
altri sconosciuti su un carro-merci che lungo il tragitto sarà sganciato e
dirottato su altri percorsi.
La forzata
nuova condizione di “deportato” colloca Marcel in una situazione
incredibilmente ambigua: da una parte questo uomo qualunque si ritrova ingabbiato
e spersonalizzato come un recluso, un relitto alla deriva, uno zombie
passivo incapace di reagire, sballottato
e rassegnato al destino; dall’altra, la insolita situazione, proprio in virtù
dello sganciamento dalla quotidianità (e dalle regole che la quotidianità
impone), gli fornisce l’occasione per
vivere una esperienza di evasione dalla scialba quotidianità (che è la sua vera,
immateriale, tragica prigione).
Il vagone
che lo ospita diventa un universo separato nel quale, dopo il caos iniziale,
sbocciano relazioni, si determinano ruoli.
(“Si era
prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né
tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla.
Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un'altra dimensione, i cui
valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita.”- pag.
87)
(“Nè
passato, nè avvenire. Solo un fragile presente, che divoravamo e assaporavamo
al tempo stesso. Ci rimpinzavamo di piccole gioie, di immagini, di schegge di
luce che, certamente, avremmo conservato per tutta la vita.” - pag. 123)
Assistiamo
al timido manifestarsi di un’attrazione fra Marcel e Anna, una giovane profuga
ceca.
Due
solitudini che si annusano e si cercano: Anna, ebrea di Praga appena rilasciata
dal carcere; Marcel, che è stato rinchiuso a lungo in un sanatorio ed ha
sofferto ancora più a lungo la reclusione per un’insoddisfatta routine
matrimoniale.
(“Vissi
lassù 4 anni, un po' come sul treno; voglio dire che il passato e l'avvenire
non contavano, né contava quello che succedeva giù nella valle, né tanto meno
nelle città lontane.” - pag. 39)
Le chiavi
di lettura del libro sono almeno due: quella sentimentale che vede il
dispiegarsi della tenerezza e quella cinica che vede il trionfo
dell’ineluttabilità, lo sgretolarsi della capacità dell’uomo a modificare il
proprio modo d’essere, se non il proprio destino.
Simenon
gioca abilmente sui due registri, e ciascuno è libero di scegliere se abbandonarsi
all’emotività dolce e leggera (assumendo la toccante storia come un sofisticato
elisir d’amore) o abbattersi al pessimismo circa la libertà di scelta degli
umani (non allontanando da sé l’amaro calice del nichilismo). Ma l’autore –
secondo me – propende decisamente (anche se forse non del tutto consapevolmente,
considerata la sua prolificità e la sua velocità di scrittura) verso visione amara
dei fatti.
Chi
conosce il romanziere francese sa che la sua crudeltà non ha limiti. In questa
opera, eccezionalmente, lascia la penna nelle mani di Marcel, gli fa raccontare
in prima persona la sua avventura e gli fa persino esprimere le circostanze e
le ragioni di questa lunga confessione (trascritta segretamente su un diario per
dimostrare a se stesso di essere capace di vivere e per offrire ai figli, in
futuro, una diversa e meno logora immagine di sé).
Ma in ogni
pagina e con mille dettagli Simenon lascia trapelare che l’avventura insolita (che
dovrebbe ridisegnare il profilo di un uomo mediocre) si sviluppa non per
volontà dello scialbo Marcel, ma a causa della precisa determinazione della
donna (che prende l’iniziativa, decide per lui, crea le condizioni del
rapporto, gestisce questioni logistiche e sviluppi affettivi).
Marcel,
sul treno e nel campo profughi, come in tutta la sua vita passata e futura, si
lascia trasportare dagli eventi, non ha il controllo della situazione, lascia
che le cose accadano (“forse non eravamo
ancora arrivati all’indifferenza, ma ciascuno di noi aveva rinunciato a pensare
in prima persona”), vive la precarietà: non sa dove lo porta il treno (e in
certi momenti non gliene importa), non sa come si evolverà il suo rapporto con
Anna, accetta l’avventura, ne subisce la conclusione (“finisce tutto in una bolla di sapone”). La sua voglia di riscatto si
dispiega solo grazie all’accidentalità; l’intimità di cui gode non è progettata
ma imprevista, non cercata ma trovata.
L’unica
decisione di Marcel, presa dopo la fine penosa della sua storia, sarà quella
che ne sancirà la conclusione tragica.
I figli di
Marcel, come noi, conserveranno di lui il ricordo di una persona abulica, un
uomo triste senza passato e senza futuro, un insoddisfatto che non ha saputo
scegliere una vita alternativa, non ha saputo afferrare una transitoria e probabile
occasione di felicità, non ha accettato di destabilizzare una vita
insoddisfacente.
(“Soffrivo di non poter raggiungere l’impossibile.”)
La storia
di Marcel è la storia di un vinto, in sintesi.
Uno sconfitto
verso cui provare, come verso sé stessi, compassione.
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