Il film prende le mosse dall’esperienza di
Davide Cordova, la drag queen che, col nome d’arte di Fuxia, ha animato uno
storico locale gay-lesbo-trans di Roma, e racconta la storia
dell’emancipazione di un Davide quattordicenne che, nella Catania degli anni
‘80, scopre la propria omosessualità e decide, contro tutti, di provare a
viverla.
Alla
ricerca di un’identità non asfissiata dall'aria domestica e di un equilibrio
compatibile con la sua percepita “anormalità”, il ragazzo compie un gesto di
coerenza e una scelta di libertà allontanandosi da casa e cercando rifugio sull’altra
faccia della luna, nel quartiere più fatiscente e malfamato della città.
Lascia
dietro di sé una madre tenerissima (che sta diventando, emblematicamente, cieca)
e un padre incapace di capire (che lo costringe a cure ormonali per guarirlo
dell’inconfessabile malattia), si avvicina non senza titubanze ad alcuni ragazzi
già “emancipati” (o “perduti”, a seconda dei punti di vista) che frequentano i
giardini di Villa Bellini e finisce per seguirli fra i vicoli di una casbah
degradata dove ogni diversità è consentita, così come viene accolta ogni
incongruente eccentricità, accettato ogni improbabile abbigliamento o
atteggiamento, ammessa ogni scelta di vita.
Determinato
e fragile, Davide galleggia dapprima incerto sui confini di due universi –
quello in cui ha nidificato nel suo passato (rimpianto/detestato) e quello che
gli si prospetta davanti (temuto/desiderato) – e compie infine il passo
decisivo, paga un suo doloroso pegno e sceglie di immergersi nelle acque
torbide dell’emarginazione fatta di furtarelli e prostituzione, superate le
quali potranno forse avverarsi le sue confuse fantasie adolescenziali.
Ma
quel che raccoglie – almeno in un primo momento – non è altro che malessere e
disorientamento, fame, violenza che deturpa i sogni, disordine, bellezza
sciupata.
Il
film qui si ferma.
Quel
che interessa al regista non è l’esito della metamorfosi, ma il travaglio dei
suoi meccanismi in un contesto ostile. Il racconto del processo è molto più
interessante dei risultati.
Il
trentenne Sebastiano Riso, di Catania, nel trattare una materia così delicata, mostra
mano sicura e idee chiare.
Notevole,
per esempio, la scelta di evitare astute e spregiudicate ricerche d’effetto:
conoscendo il mestiere, calca la mano con pittorica efficacia per rilevare le
ostentate esibizioni della scalcinata armata Brancaleone, sa documentare con
allegria la spettacolarizzazione che i ragazzi fanno del proprio corpo
iperabbigliato (la sfilata da circo che all’inizio del film segna l’ingresso di
Davide nell’universo dei dissimili è felliniana, onirica, esibizionista nel suo
andamento trionfale e triste). Ma sa frenare, sceglie di frenare, quando entra
in gioco l’intimità o quando a essere messe in campo sono le fragilità affettive
o le inquietudini erotiche; la telecamera allora si colloca a rispettose
distanze, cerca interposti diaframmi e cortine e vetri smerigliati, o specchi
che rimandino immagini indirette e frammentate.
Il
picco emotivo – a conferma di questa reticenza sapiente – lo si ha, a mio
parere, non tanto nella violenta scena dello stupro-iniziazione, o nella
struggente scena in cui la madre di Davide bacia le sue ferite, o in altre
scene oggettivamente drammatiche o melodrammatiche, ma nella breve sequenza in
cui Davide, ormai “libero”, incontra la
madre (abbandonata con sofferenza) quasi completamente cieca, la abbraccia e si
lascia disperatamente abbracciare, viene trascinato su un autobus che dovrebbe
riportarlo a casa e lì, seduto dietro alla mater
dolorosa, le sussurra all’orecchio un lungo discorso fatto di parole –
indicibili, inudibili, intuibili – che determineranno il definitivo, pacato, condiviso
distacco.
NOTA SULLA COLONNA SONORA
A
rappresentare l’esasperazione di chi vuole prendere le distanze dalla grigia e
quieta normalità, i colori nel film sono carichi e le musiche, diegetiche,
pescano nel repertorio della coloratissima Donatella Rettore, personaggio
eccentrico, icona dei trasgressori e dei non omologati, che ha anticipato e
ispirato, fin dagli anni ’80, altre eterodosse
(fra cui Madonna) molto meno originali.
Nelle canzoni della Rettore, la piccola comunità di sbandati
(che comprende un ragazzo che dalla cantautrice ha preso il nome facendosi
tatuare l’iniziale sul bacino) trova verbalizzate le più confuse sensazioni, le
paure e i desideri, la rabbia e le scelte dolorose, le rivendicazioni e il
bisogno di quiete, la voglia di vivere e l’istinto di morte.
I ragazzi
di strada amici di Davide conoscono, parola per parola, i testi espliciti delle
sue canzoni. Ne ricordiamo alcune, per aiutare a comprendere le atmosfere del
film e gli umori dei suoi protagonisti.
In Splendido splendente (1979), stampato su
un vinile completamente rosso, la Rettore canta: "… anestetico d'effetto e
avrai una faccia nuova / grazie a un bisturi perfetto, invitante, tagliente… / Come
sono si vedrà / uomo o donna senza età / senza sesso crescerà / per la vita una
splendente vanità" e “Io sorrido
eternamente grazie a un bisturi tagliente”.
In Kobra (1980): "Il kobra non è un
serpente / ma un pensiero frequente / che diventa indecente / quando vedo te … /
Il kobra si snoda, si gira m'inchioda/ mi chiude la bocca, mi stringe e mi
tocca".
In Gaio (1980): "Scotta la pista di
plastica rossa / Gaio saltella e si prende la scossa… / Gaio, che beve le sue
ore col cucchiaio/ Gaio, che perde il suo calore sotto il saio".
In Benvenuto (1980): "Benvenuto uomo/
in gola e nel palato".
In Lamette (1982): "Dammi una lametta/
che ti taglio le vene/ ti faccio meno male del trapianto del rene".
In Dea (1986): “È un modo che dicono sia la
mutazione da farfalla in dea”.
Ed
infine in Amore stella, che è il leit
motiv dell’intero film: “Io / che sono niente nullità / chi sa che
Dio diventerei / se in quel che vivi fossi anch'io / se quel che fai fosse
un po' mio / da te mi lascerei bruciare / peggio all'inferno anche
più giù / se proprio in fondo fossi tu. / Per quanto buio il buio
sia / di tutta questa vita mia / senza guardare me ne andrei /
tranquilla tanto non cadrei / per quanto il mondo sia paura / paura
io non avrei più. / La forza mia saresti tu!...”.
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