Siamo nel 1949.
Ed Crane fa il barbiere a Santa Rosa in California e conduce
un esistenza amorfa, triste, rassegnata; apatico nella sua fissità, grigio
nella sua anaffettività (non ama, non odia, non gioisce, non soffre), rigido e
tragico nella sua totale inespressività.
Alla ricerca di “un
qualche tipo di fuga, un qualche tipo di pace”, ricatta l’amico con cui la
moglie lo tradisce, gli estorce una grossa somma di danaro e poi lo ammazza, ma
qualcosa va storto e gli eventi lo travolgono inesorabilmente, proprio come
accade in altri film dei fratelli Coen costruiti attorno a storie di ricatto
(Fargo, Il grande Lebowski, Burn after reading).
La totale indifferenza davanti al precipitare degli
eventi non nasconde il suo sentire profondo che - sorprendentemente e
paradossalmente - è impregnato da un’inquietudine immensa e devastante anche se
inespressa, da un’insoddisfazione intima insopportabile, da una rabbia
compressa che scaturisce da una disperazione insanabile.
Per queste ragioni, anche se la vicenda ruota attorno ad
un canonico omicidio, il film non può essere ingabbiato nel genere noir, ma
dilata i suoi significati fino a diventare uno spiazzante trattato filosofico
sul nichilimo che regge il paragone con il pensiero e le opere di Turgenev e Dostoevskij,
Kafka e Camus.
La sceneggiatura è perfetta, asciutta e sostanziale; la regia
è pulitissima, senza enfasi deconcentranti, rigorosamente tesa a rappresentare
l’emozione nella sua scarna essenzialità.
Splendido e nitidissimo il bianco e nero che ricostruisce
con suggestione le temperature sbiadite dell’epoca e ne restituisce in maniera
impeccabile le atmosfere.
Sublime l’interpretazione di Billy Bob Thornton, che vive tagliando capelli che
ricrescono in continuazione, si lascia scivolare addosso gli eventi “come se recitasse” e procede come un automa mantenendo davanti alla sedia elettrica la
stessa fissità di sguardo che ha davanti alla poltrona da barbiere .
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