Il telefono squilla nella notte
con ossessiva insistenza. Agnes risponde incerta, con riluttanza. Dall’altra
parte del filo nessuno parla. Agnes di infuria e inveisce contro quello che lei
pensa sia l’ex-marito uscito di galera.
La donna - che una decina di
anni prima ha perso il figlio, svanito nel nulla mentre era con lei a fare la
spesa in un supermercato - vive sola nella squallida stanza di un desolato
motel che sorge lungo una di quelle strade che tagliano dritte la deserta landa
dell’Oklahoma. Fa la cameriera in un locale gay, tampona il suo malessere
concedendosi sporadiche serate a base di whisky e cocaina
con la sua compagna di lavoro, Ronnie, che tenta ogni tanto, inutilmente, di
proporle maschi di passaggio per movimentare la monotonia di un’esistenza in
declino.
Una sera l’amica le presenta Peter, un ragazzo riservato,
taciturno e introverso, Agnes abbassa un po’ le sue difese, attratta dalla rassicurante
timidezza di Peter. La stessa sera, l’inaspettata visita del violento marito,
sempre brutale e minaccioso, spinge Agnes a desiderare e cercare con molta esitazione
la discreta e incerta protezione del nuovo amico nel quale pensa di poter
trovare un puntello alla solitudine.
Peter parla di sé, della guerra del Golfo alla quale ha
partecipato, del ricovero in un ospedale psichiatrico, delle cure a cui è stato
sottoposto: sostiene di essere la cavia di esperimenti perversi, è ossessionato
dalla paura di essere catturato e ricondotto nei laboratori da cui è fuggito,
ha un paranoico terrore degli insetti che - a suo dire - gli invadono il corpo,
gli bevono il sangue, gli colonizzano l’organismo, gli soggiogano il cervello.
La fusione delle reciproche paure avvicina i due infelici
e li unisce, ma le due disperate solitudini unite in una simbiosi lacerante, mettono
in movimento un processo di plagio reciproco e determinano paranoie parallele
ed incubi progressivi che attireranno Peter e Agnes in una spirale inarrestabile
di dissoluzione e li condurrà verso la
terrificante autodistruzione.
Il regista mescola gli stilemi
propri del genere psicologico e psichiatrico con quelli del cinema melodrammatico
(l’amore triste fra i due emarginati), claustrofobico, horror e splatter
(automutilazioni), politico (la sindrome del complotto, lo strapotere dei
militari, il disagio psichico del reduce, l’orrore per la guerra), fantascientifico
(le armi biologiche, l’incubo degli alieni), sociologico (l’emarginazione, la torva
violenza in famiglia, la perdita del figlio in un supermercato), poliziesco e thriller.
La prima parte del film si occupa
del cuore di Ages e si sviluppa lenta attorno alla desolata infelicità dei
protagonisti fra le luci inquietanti del pub, le atmosfere squallide della
stanza del motel e l’assolato deserto .
La seconda parte si occupa della
mente di Peter e si svolge nella stanza del motel trasformata in una
allucinante fredda camera sterile (con pareti, soffitto, pavimento, mobili e oggetti
totalmente rivestiti di carta stagnola); prende il ritmo crescente, ossessivo, frenetico
e atroce della follia, diventa la rappresentazione raccapricciante di tutte le
forme più crude della alienazione, della claustrofobia, dell’autolesionismo,
del delirio.
La dicotomia (o meglio, la discrasia)
fra le due parti è sottolineata dalla recitazione (prima spoglia e poi
delirante), dai colori (prima slavati e poi lividi), dalle inquadrature (prima piatte
e poi sghembe), dai movimenti di macchina (prima fluidi e poi frenetici, con
macchina a spalla in un continuum ossessivo di soggettive che inducono all’identificazione),
dal montaggio (in accelerazione, con inserti simbolici suggestivi).
Si esce dall’esperienza visiva - ma
non si riesce ad abbandonare completamente quella stanza - con nelle
orecchie il martellante frastuono degli elicotteri che arrivano minacciosi,
scuotono le sicurezze, sconquassano il cervello, devastano, annichiliscono.
Con in testa il dubbio che il
film non parli solo dell’America.
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