Il film si apre con un
terribile incidente che coinvolge Ludo e lo riduce in fin di vita: gli amici,
un gruppo di parigini fra i trenta ed i quarant’anni, accorrono sgomenti e -
nonostante la gravità delle sue condizioni - decidono di non rinviare la loro già
programmata vacanza in una casa a Cap Ferret.
Qui, forse anche per il
nuovo sfondo costituito dalle pietose condizioni di Ludo (solo apparentemente
lontano e assente), esplodono fra loro tutte quelle nevrosi che caratterizzano la
scombinata e disorientata generazione post-sessantottina.
Di giorno in giorno emergono
inadeguatezze, fisime, immaturità, ipocrisie, debolezze ed ossessioni; di
giorno in giorno fra questi amici - che fino a fino a ieri erano indulgenti fra loro come lo
si è con se stessi - affiorano insoddisfazioni, nervosismi, intolleranze
reciproche, insofferenze irrisolte; si infittiscono gli scontri, i battibecchi,
le accuse, le recriminazioni. E assistiamo ad un fittissimo gioco al massacro, liberatorio
e crudele, sempre condotto sul filo tagliente dell’ironia acida, della feroce
complicità, del sarcasmo ipercritico, delle nevrosi tormentose, dello
svelamento beffardo, spietato e lancinante, surreale ma credibilissimo.
La lunga consuetudine dei
rapporti e l’antico e forse immutato affetto si mischiano all’egotismo
narcisista ed al cinismo ed offrono un quadro dolce ed amaro nello stesso
tempo. La generale immaturità viene stigmatizzata e nello stesso tempo, appunto
perché universale, assolta.
Accattivante la seduttività
della rievocazione nostalgica. Magistrale la capacità di intrecciare comicità e
tragedia, di alternare cinismo e commozione, di frenare e accelerare. Buono il
ritmo, sia quello narrativo che quello dei dialoghi, sempre incalzanti e
frizzanti. La scelta degli attori e la caratterizzazione dei personaggi sono
indovinate. La colonna sonora è ruffiana quanto basta.
Una riscrittura in salsa
maionese, forse un po’ troppo consolatoria e auto assolutoria,
dell’inarrivabile “Grande freddo” di Kasdan.
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