Da tempo non scrivo poesie, sostenendo e spiegando - a chi me ne ha chiesto i motivi - che per scrivere poesie è necessario essere innamorati o disperati.
Dal marzo 2020 ho sentito il bisogno di ricominciare.
Poesie un po' disperate, un po' no; alcune personali, alcune un po' più "sociali" o esistenziali (nel senso che parlano dell'esistenza in generale).
Non sto a rifletterci più di tanto nel "raffinarle". Non faccio selezioni.
Se una su dieci dice qualcosa, è un gran successo.
Le posto tutte qui, su questo blog abbandonato da tempo, se non altro per non perderle.
In ordine cronologico, a partire da marzo 2020 e fino a novembre.
Poi vedremo.
IN TEMPI DEL CORONA VIRUS
1
Questa strana quiete cesserà
alla fine della strada
e finirà questo sordo panico confuso
che cova dentro
muto nel silenzio.
Bruciate con me questa matita,
se potete,
oppure no,
lasciatele dov’è, che fa lo stesso
2
Inerte.
Sarò così.
E con le mani fredde,
il cuore fermo,
la mente spenta.
E tutto intorno
Un’aria mestamente neutra
e un poco interrotta, e per poco.
Sarà così:
è vaporoso il tempo della vita
che impercettibilmente
si disperde veloce come il fumo
o scivola come sabbia fra le dita.
La terra non è lieve: è indifferente.
Io,
io sarò lieve, immateriale,
evanescente come la memoria.
3
È un attimo il risveglio.
E subito affiora la tristezza
che sfilaccia le ore
lenta, lungo il giorno lento.
Nessuna mano sulla spalla
a consolare,
ma occhi persi e schivi
dentro i quali l’anima si specchia
per dilagare e intridere i pensieri.
4
Passano fluidi i giorni
uno dopo l’altro.
Colano le ore,
una dopo l’altra.
scivolano i minuti inconsistenti.
Il silenzio è compatto e quasi pesa,
rotto solo dal lugubre verso dei piccioni.
Scorre liquido il tempo
e infradicia e consuma
gli aridi residui
di questa vita instabile e sbrecciata.
5
“L’angoscia vera è fatta di noia” (Pavese)
Per non sprofondare dentro il vuoto
basta forse riempirlo con la noia.
Basta imparare con pazienza
a coltivare la noia artificiale,
terapia sistematica all’angoscia
anestetico all’isteria dei desideri.
Così con la finta indifferenza
ci si purga delle pallide finzioni;
così si disimpara
il calore dell’amore
per diventare renitenti della vita.
6
Esasperato, no:
solamente freddo
e lucido,
lucidamente consapevole.
So che non vedrò
la fine di questa mutazione.
Nemmeno lo zapping fra i ricordi
smuove le nostalgie
che hanno perduto consistenza
e forse – non so, non son sicuro –
potrebbero agitare un desiderio,
dirottare un sogno.
Sul piano inclinato non c’è appiglio
e il nulla già lo sento nelle ossa.
7
Continuo a fingere armonia
e non mi lascio tentare
dall’acido fiele della rabbia.
Trattengo l’urlo
che preme dentro
e trattengo la consapevolezza.
Se per caso la lasciassi andare
ne sarei scorticato
e assisterei sconvolto e impotente
alla inarrestabile rovina.
8
Ricordati, ragazzo, io ti chiedo
di sciogliere un sorriso dolce
davanti a me
quando io non potrò vederti.
Un sorriso semplice,
dolce e sereno,
tenero e soave.
Dolce per i dolci tuoi ricordi,
sereno per le cose condivise,
tenero per il me che tu un po’ sei
e soave,
soave
per quello che sarai senza di me.
9
Morirà anche la terra,
- cazzo! -
con la sua crosta putrefatta,
i miasmi sotto i cieli grigi
e il ribollire putrido dei mari.
Forse si salveranno pochi muri,
squallide e tenaci archeologie,
e i cimiteri
invasi di formiche.
10
Pare un romanzo noioso la mia vita
fatta di inutili minuzie
e di nessuna stravaganza.
È vero:
ho messo confini alle emozioni
e ho usato parole pacate
per rendere un po’ meno dolorosa
la fatica di sedare le antiche seti.
Ma ora che i miei giorni van scemando
non mi lascio ingombrare dai rimpianti:
nessun “però” farà la differenza-
11
Cresce l’inedia in questi giorni vuoti,
e lo sconforto neutro fagocita le ore.
Non so che farne di questa primavera,
dei suoi stupidi tepori,
dei suoi colori inutili e chiassosi,
delle sue arie che indovino oltre i muri.
In questo irreale isolamento
freno ogni rumore
e così
ma non filtrano fin qui, pesandomi sul cuore,
i fiati e gli affanni di chi muore.
12
Quante piccole finzioni
e quali risibili e ingenue strategie
per istinto ho saputo escogitare
per dribblare sul percorso della vita,
nel contempo, disgusti e desideri,
annaspando con la pavida cautela
di un rettile uscito dal letargo.
Che sollievo smorzare le emozioni
e cercare solamente il vuoto
dentro il vuoto, dentro il vuoto quotidiano.
E quanto mi è sembrato dolce – e triste –
vivere anestetizzato sotto traccia.
13
Ora,
ora che son sedate le finzioni
e non è più necessario far conquiste,
mi lego a quel che ho
con una imprevedibile tenacia.
Si sono sbriciolati i desideri,
ma penso con terrore
a quando finiranno questi giorni
vissuti quasi in parallelo
con questa amica silenziosa
che sorveglia i miei passi
con cautela, per scelta e per istinto,
oltre ogni ragione generosa.
Non riesco, non voglio immaginare
giorni diversi.
Non aspetto tempi supplementari
E rimando a domani la paura.
14
Non cesso di essere maschera, lo so.
Non la indosso: lo sono.
E per questo non la posso lacerare.
Per una lenta osmosi progressiva
Sono diventato quel che sembro
ed alla scarsa luce del tramonto
l’essenza vale quanto la sembianza.
Nascondermi o svelarmi fa lo stesso:
è diventato bifronte lo sgomento.
15
Escono gli umani,
escono a ripopolare i marciapiedi.
Si affacciano nel limpido deserto
per ritrovare le apparenze consuete.
Tutto tornerà come prima.
Tutto tornerà come prima
nel caos del formicaio scoperchiato.
Non è, non è stata e non sarà
una tragedia,
ma il naturale processo del pianeta
fatto di espansioni e contraddizioni,
fughe e rallentamenti,
deviazioni e scarti,
cadute,
apparizioni e sparizioni
nella più netta indifferenza.
16.
Vivo, come se sapessi come.
Vado, come se sapessi dove.
Tutto è più ottuso di quanto non credessi,
il cielo è troppo alto,
l’aria pare in pausa,
e si è interrotta come fosse un sogno
la fatua morbidezza che cercavo.
17.
Quando sarà
non restare a guardar le stanze vuote
stagnanti nel silenzio.
Non affacciarti a guardare il mio giardino
con dei pensieri grigi:
il melograno, la lavanda, il gelsomino
fioriranno comunque a primavera
indifferenti a chi li vede.
Le stanze, le mie foto, le mie cose
non ti diranno niente di diverso
di quello che già sai.
18.
Non so.
E’ un conforto la presenza dell’amica:
una presenza-assenza silenziosa,
come fosse un profumo.
Il sapere che c’è in un’altra stanza
“in tutt’altre faccende affaccendata”
mi culla nel torpore,
dentro una solitudine pacifica e appagata,
placida, quieta, quasi sonnolenta,
al riparo del vuoto desolato,
lontano dai rumori,
da quelli consueti della strada
e da quelli che ti sgretolano dentro.
19.
Questo è un luogo piccolo, una tana
Dove ogni giorno col suo ritmo lento
lascia il posto ad un altro,
dove gli odori sono familiari
e i rumori attutiti.
E’ qui che snocciolo le ore nell’inedia,
qui mi riparo dal tempo che è passato,
qui non guardo
- e non voglio, e non m’importa -
di quello che sarà.
20.
Fingo normalità
ben consapevole che i giorni
affondano lenti nel catrame nero.
In questo son campione.
Recito la parte dell’illeso
nascondendo il mio cuore raggrinzito.
Non importa
del tempo che farà domani.
Mi concentro – e un poco mi trascino –
nel tramestio irreale
delle ore meccaniche e sbiadite,
compresse fra attoniti risvegli
e tramonti sempre più dolenti.
21.
Quella che fin qui era cauta gentilezza
ora è penosa indifferenza,
autismo spaurito e catalessi.
Sono concentrato nell’attesa
che accada quel che deve,
ma non voglio che tracimi
l’autocommiserazione.
Mi bastano i pensieri negativi
e lo sconforto che mi danno
per avanzare senza strepito a tentoni
in questo crepuscolo fumoso.
22.
Trovo sempre qualcosa di banale
che mi distolga un poco dal disgusto
e che mi possa annebbiare in qualche modo.
Per evitare spasmi esistenziali
basta che mi concentri sui dettagli
di un inutile lavoro solitario,
basta che mi inventi monotonie diverse,
fintamente diverse.
Ma dimenticare cosa sono e dove
per due ore o per tutta una serata
non cambia la sostanza atroce delle cose
e tutto rimane quel che è
- delirante e sordo –
sopra le mie fragili amnesie.
23.
Chiamala col suo nome la paura.
Se la camuffi, resta quel che è,
se la nascondi o la rinchiudi sigillata,
dal fondo fa sentire il suo respiro
che è più terribile nel buio,
e allucinante e cupo,
così come è più denso il vuoto
che aleggia in una stanza vuota.
24.
I bambini – e tutte le anime innocenti –
vogliono protezione
e si beano di avere chi li salvi.
Poi,
crescendo o maturando,
hanno bisogno di proteggere e salvare.
Nel mio vicolo cieco,
dove l’oscurità non si dirada,
brancolo senza desideri di salvezza
e nessuno si aspetta che lo salvi.
25.
Non pare,
ma i piccoli atti quotidiani
rituali e solitari,
scandiscono il disfacimento lento
che - certo - non può dirsi inaspettato.
26.
La splendida giornata
camuffa bene
tutta la ferocia che serpeggia.
I colori e gli odori dell’estate
- la lavanda, le rose, il melograno -
sono indifferenti alla minaccia.
C’è dolcezza nell’aria di questo pomeriggio,
una dolcezza quieta che non pare strana,
ma consueta, ipnotica, …
Dicono che sia dolce l’agonia.
27.
Prima
capitava o poteva capitare
di risvegliarmi alleggerito o con sollievo
da un sogno affannato.
Ora il sonno chimico
è sedato, pacifico e profondo,
ma il risveglio
si apre su inquietudini confuse,
porta equilibri precari
e incerti.
E ogni volta è come fossi altrove
senza la voglia di tornare,
come se questa non fosse casa mia
e tutto fuori fosse raggrinzito.
28.
Preferisco la tana.
Non è più stagione
di affinità mentali o emotive.
Tutto mi costringe,
ma nello stesso tempo
da tutto son lontano.
disorientato e fiacco.
Questa notte
mi sono affacciato alla finestra.
C’era una luna enorme
impigliata nei rami del tiglio
e non sapeva da che parte andare.
29.
Nulla ha importanza,
tanto meno la mia piccola vita senza peso
fragile più dei bagagli che trascina.
È fatta di poco la vita degli umani
che scivola lenta nel silenzio
nonostante l’inutile fracasso,
parte di disegni arcani senza schema.
Vita da scarafaggi spaesati,
intrappolati dalla biologia
nel percorso dell’ascesa e del declino.
30.
Succede qualche volta,
in ore di inedia faticosa
e di pensieri grigi,
capita che mi senta un po’ sdoppiato
e mi scruti come fossi un altro:
estraneo, separato,
dissociato come un recipiente accantonato.
L’io che mi guarda
è omnisciente, cinico, impietoso
e non ha pena per la pena mia.
Lo odio dal profondo
mentre sotto il suo sguardo inaridisco,
ma so perfettamente che ha ragione.
31.
Giorni silenziosi e quieti,
fluidi e inconsistenti,
fatti di un incanto di noia
e di qualche gioia pallida e sottile.
Sono in una bolla che protegge
ma non consente fughe nei ricordi
svaporati e vani,
e non permette inattuabili progetti.
Fluttuare sospesi nel presente
senza lasciare traccia
è il magico regalo del momento.
32.
Nel metter sotto vuoto le paure
includo le memorie e le speranze
e i pensieri tutti
che non so dove possano portarmi.
Non guardo oltre la siepe
dove c’è la vertigine in agguato;
e non mi guardo dentro
dove un vortice potrebbe risucchiarmi.
Mi lascio accompagnare solamente
dalla malinconia
della quale non declino le ragioni.
Subisco i giorni
non potendo prevedere quel che viene,
come i sogni inquinati
intrisi da ossessioni
che non posso di certo pilotare.
33.
È un andare piatto alla deriva,
senza grazia, senza disperazione.
Come se fossi irresoluto
e non sapessi comunque dove andare,
come se fossi qui
e nello stesso tempo altrove,
estraneo, opaco, sbigottito.
Le emozioni, tutte le emozioni,
viaggiano a velocità diverse dalla mia
e sfumano lontane,
sempre più lontane,
e fievoli, e sbiadite.
34.
La tristezza si espande come l’acqua,
si infiltra silenziosa e sembra innocua.
Disfa ma non scioglie i grumi
che si stemperano solo col calore.
Come l’acqua si espande la tristezza,
fredda e silenziosa,
e dilaga apparentemente senza danno.
Io la conosco
ma non la so fermare:
Passo le ore stordito
nel torpore nebbioso.
Ne porto i segni, la sento nelle ossa
e lascio che completi il suo lavoro.
35.
Arriva il momento
in cui tutti i ricordi più felici
portano una stretta al cuore.
Ora che attraverso questa estate,
vivo come si ci fosse la nebbia di novembre
e appare incongruo, non esiste,
il tepore di luglio.
Evapora la memoria delle cose più essenziali.
I pensieri che affollano la mente
girano in cerchio e non sanno dove andare.
36.
Un posto dove stare io ce l’ho,
ma non è il posto da cui potrò partire
per cullarmi nel desiderio di tornare.
Se me ne andrò da qui sarà per sempre.
Non avrà più tappe intermedie la mia vita,
né sorprese, né incontri inaspettati.
Tenacemente spero
che i fragili giorni che verranno
possano sfilare neutri e senza peseo.
37.
Incontro ancora gente
e scambio con gli amici
segnali di usuale appartenenza,
ma per farmi riconoscere
recito un copione
e fingo di sembrare quel che ero.
Solo così – barando –
mantengo questa vita sui binari
che puntano diritti nel deserto.
38.
La mattina arriva quieta
e sembra che tutto possa cominciare.
Si apre quieta e chiara ogni mattina,
tanto quieta da mettere paura,
tanto chiara da sembrare abbaglio.
Scorre via veloce il tempo, la mattina:
rapido come la lieve adolescenza
che appare viva dentro il suo fulgore
solo nella distorsione dei ricordi.
39.
Nella notte fonda
mi sveglia il dolce brusìo della pioggia.
Ascolto l’acqua con un senso di sollievo
e so che là fuori sta lavando
la crosta nera delle strade
e porta sollievo alle foglie impolverate
dei platani e dei pioppi.
Annuisco nel buio
a non so quale domanda mi son fatto.
40.
Con le parole cerco di fermare
il torpido groviglio dei pensieri
che non posso – non serve – districare.
Tanto,
davanti a me c’è solo nebbia
e non c’è bisogno di vedere
quando non c’è la strada,
quando non c’è un dove,
quando non c’è nessun sorriso che ti aspetta.
41.
Come ogni sera,
l’ombra scivola dentro il mio giardino,
scorre lentamente sulla ghiaia
spazzandola leggera
e si arrampica sul muro di cemento
per inghiottire la fontana.
E io so che è ora di innaffiare.
In questo modo silenzioso e neutro,
un giorno dopo l’altro,
striscia impercepita un'altra ombra
inghiottendo lo spazio della vita,
bevendolo goccia a goccia
e comprimendo il tempo come un rullo.
42.
Fluttuo distrattamente, galleggiando,
e deraglio la mente sui binari morti
che finiscono dove io non so.
Ma la vaga inquietudine è in agguato
dentro ogni piega
di questi giorni stropicciati,
fatti di ore lente e bianche;
e di notti fragili
come il baluginare incero di candele
accese in altre stanze vuote
nei quadri di Hammershøi.
43.
Sembra che il tutto si concentro qui,
in questo spazio fermo,
in questo tempo fermo.
E che il resto
- l’altrove, il prima e il dopo –
sia svanito e perso.
Aspetto,
anche se so che è tardi,
anche se so che non merito di meglio.
E me ne sto intanato
ad ascoltare il tremare delle fof
glie,
con l’indice infilato a segnalibro
alla pagina duecentottantasei.
44.
Lo so:
so del male dentro che non ha rimedio
e so del male fuori che è peggiore
e porta il pianeta alla deriva.
Ma ho trovato qui
il mio piccolo rifugio provvisorio,
l’occhio quieto del ciclone,
una bolla nel caos universale.
Fuori,
fra quelli che si credono salvati,
c’è l’ottusa smania di normalità
e una sconcia incosciente frenesia.
Qui
galleggio nell’attesa
nutrendo nel silenzio il mio sconforto.
45.
È un assedio:
dalla tana
percepisco i segnali di minaccia,
quelli che premono da fuori
e quelli dentro che mi vanno logorando
convergenti e alleati gli uni e gli altri
nel creare lo sgomento.
Respiro con cautela
e sgrano ad una ad una
- attonito -
le mie pigre irripetibili giornate.
46.
Di notte
non chiudo gli scuri alle finestre:
nel buio
passano sui muri del soffitto
le rapide bianche sciabolate
e sento la luce del mattino
quando arriva
con lentezza infinita.
Nella indolenza del risveglio
mi lascio cullare dai rumori della strada,
ora che non ci sono dentro casa
passi da riconoscere.
47.
Ora
sono per me mestiere e istinto dilatato
i vecchi giochi tutti cerebrali
della distanza e dello sdoppiamento,
il vedermi da fuori come altro,
il descrivere con lucido distacco
la condizione di malinconia
e i meccanismi disperati del dolore.
Fuori da questi fogli
non lascio trapelare alcun sussurro:
simulo la calma e il distacco,
amo le esitazioni sobrie
e non spreco nessun superlativo.
Dentro
la fatica di vivere lavora
e la foresta di tutte le emozioni
è fatta di gracili bonsai.
48.
Se la vita è l’attimo che fugge,
io non saprei.
I miei attimi comunque sono piatti
o non hanno aggettivi.
I fiori, il sole, il vento
non danno ebbrezza
e non fanno vacillare la mia noia.
So per certo
che non potrò durare
più dei libri che vado accumulando
e dei vecchi attrezzi da giardino
abbandonati al sole sulla ghiaia.
49.
Dentro il sonno artificiale
attraverso con fatiche e con affanni
gli spazi neri della notte
in una raffica di sogni scombinati
pieni di fughe inutili e spossanti.
E poi mi affaccio disarmato al giorno
e conto inquieto
le ore lente e scolorite
sotto il chiarore estivo che non ha pietà,
dentro la consapevolezza cruda e silenziosa.
Aspetto l’affievolirsi della luce
e di nuovo desidero la sera,
spero di nuovo nell'inconsapevolezza della notte,
tana sicura,
lago di quieta tenerezza.
50.
Lo scoramento che dentro mi consuma
non urla o fa sconquasso,
ma serpeggia sotto traccia
col suo fluire amorfo,
afono,
in apnea nell’incoscienza
nella profondissima quiete.
Io curo che nessuno l’indovini,
sapendo bene
che il vento nel deserto è naturale.
51.
Chi ama
è capace di sottili sintonie
e previene i desideri.
Ma il tempo amorfo arriva e spiana tutto.
La scia della cometa
ha il fulgore composto da detriti:
splende a sorpresa e muore
e il buio che la esalta
la insegue veloce e la sopprime.
52.
Non è assolutamente necessario
aspettare l’apice del delirio
di una rivelazione folgorante
o di un’estasi acuta e irreale
per conoscere il senso della vita.
Basta il tempo sospeso, col suo passo lento,
basta il declino naturale,
basta l’ombra della grata contro il muro,
basta lo scorcio di una stanza vuota
silenziosa oltre una porta schiusa.
53.
Sono qui,
ma sono già lontano e inconsistente,
orfano di attese e di memorie.
Sento tutta la mia fragilità,
ma nulla ormai mi può ferire,
nemmeno la vorace lama del presente
con le sue impalpabili paure.
Non so che cosa faccio qui,
se io mi fingo altrove.
È da una vita che scivolo nel tempo,
che attraverso l’aria con cautela,
procedendo a tentoni dentro la caverna
e lascio che mi accadano le cose.
Sono nel deserto dei tartari
e respiro il grigio dell’attesa.
54.
Arrivi a un certo punto
in cui ci sei, sei visto e vai
ma non lasci nessun segno.
Ripetendo il sacrificio
trascorri senza gioia le giornate,
quante sono o saranno non importa,
e non trovi la speranza del mattino.
Sei passante per caso nel tuo tempo,
nemmeno testimone,
straniero a casa tua,
e forse non esisti più.
Nella più inquieta confusione,
conservi residua una vaga vita vegetale
in una lenta metamorfosi al contrario.
55.
Nella mia precarietà
vedo quella di tutti,
di tutti,
e sento l’infelicità di quel bambino
di cui mi arriva il pianto disperato
da dietro una finestra, non so quale;
un pianto un po’ stizzito e insistente
che pretende attenzione o chiama aiuto
e perfora l’aria ferma del mattino.
Il muro è lì,
alto nell’ombra e muto,
freddo come uno specchio opaco
e le finestre sono tutte uguali.
56.
Lo so che la vita si fa inutile
se non riesci a immaginare
un qualsiasi domani.
So che diventa un camminare nella nebbia
dopo essersi perduti.
Solo i fantasmi avanzano nel vuoto
dopo che il tempo si è fermato.
Non ci si può salvare
giocando con inutili parole.
Abbandono un sudoku incominciato
che nessuno finirà.
57.
Il passato è un impenetrabile groviglio
prodotto da troppi fatti e troppe sensazioni.
Se mi volto a guardarlo
vedo solo fantasmi,
e vacillo,
e diventerò di sale,
una statua congelata nel gesto,
subito corrosa e sgretolata.
La vita che ho vissuto ha perso senso
e rileggerla non serve.
Oltre il bosco io so cosa mi attende.
58.
Non c’è grande trambusto intorno a me.
I contatti si sono diradati.
Le porte si aprono per pochi e con cautela,
e quelli che varcano i confini,
lo fanno con estrema discrezione
senza lasciare segni del passaggio,
come i fantasmi.
Ma io so bene
- e ogni giorno me lo vado sussurrando -
che il fantasma sono io.
59.
So che questa quiete finirà
e arriverà il momento
- un apice, un panico -
non so se di acuta sofferenza
o di incosciente confusione
afona e cieca.
E poi quel vuoto nero,
amorfo,
sospeso nell’assenza.
60.
La gabbia è diventata nido,
o viceversa,
e tengo chiusi qui, o protetti,
anche i pensieri incerti,
gli eventi interiori,
i riverberi della intera vita,
le strade perse e ritrovate,
le delusioni, i sogni, le menzogne,
le malinconie e le inconsapevoli prudenze,
le partenze, i silenzi, le prigioni,
e le paure, le intime paure.
Ma il tempo è poco
e il senso delle cose sfuma in fretta.
61.
Vivo in sordina, smorzando ogni eccesso,
immobile in uno spazio circoscritto.
Sprofondo nella nebbia
e non voglio sapere cosa accade
fuori dal mio cancello.
Ho consumato tutti gli entusiasmi
nelle enfasi del passato
- un passato remoto -
perduto in mille fragili ossessioni.
È durata fin troppo l’isteria,
il remare contro e le rabbie inconcludenti.
Cerco la calma e la penombra.
Commisero chi non sa tacere.
Non sento più fischiare i treni.
62.
Ci si mette tanto impegno
per diventare niente
e perdere valore,
noi e le nostre cose.
Si accumulano passioni e compulsioni
minuscole letizie e piccoli feticci
dense concrezioni di emozioni,
briciole di vita
e schegge di momenti vivi.
Poi si diventa inerti,
irriconoscibili e sbiaditi,
noi e le nostre inutili reliquie.
63.
Da ragazzi si va.
Si va sicuri per lasciare il nido e un segno.
Poi, senza paura,
si cresce per andare,
andare, e andare ancora.
A un certo punto,
senza motivo e senza preavvisi,
ci si sente persi.
Ora son qui che aspetto il treno.
Solo.
Lo temo mentre aspetto e guardo l’ora
e guardo in giro con disattenzione.
Non trovo appigli
e non so più che dire.
64.
Indosso la tristezza
per essere coerente con lo sfondo
e con le tinte amorfe
delle ansie irrefrenabili,
sottili come sabbia di clessidra.
Gioco la partita fino in fondo
con sempre minore convinzione.
Non ho scelto io questo viaggio
e nemmeno ho stabilito il suo percorso
e non è certo questo il momento di fuggire.
65.
Trattengo i pensieri
che si incalzano fitti e aggrovigliati
e vorrebbero snodarsi
e portarmi lontano, via da qui.
Guardo il temporale
nero e minaccioso dietro i doppi vetri
punteggiati da gocce luminose.
Aspetto che accada qualche cosa
nella pausa metafisica del nulla,
come fossi - mentre si fa sera -
nella zona di ritiro dei bagagli,
dopo un volo,
sapendo che con me
non ho altro che le cose che ho indosso.
66.
Non so quanto da qui disti il confine,
e non credo che sia così lontano.
Sono certo però
di trovarmi in un paese forestiero
dove nessuno parla la mia lingua.
67.
Mi sembra di tenere la paura
oltre le fragili barriere
delle mie sottili percezioni,
ma sento che pulsa e freme velenosa
sul confine.
Basta una vacua distrazione,
quella che affiora tra la veglia e il sonno,
per ritrovarmi in una stanza senza porte.
68.
Ascolto nel buio indecifrabili rumori
lontani, di gente che si muove.
Fuori da qui,
in questa notte limpida e nemica,
il mondo non si ferma.
Vorrei essere altrove,
andare sciolto e inconsapevole,
senza bagagli,
senza destinazione,
senza lasciare traccia.
Ma non sento fischiare nessun treno.
69.
Sogno spesso
di inseguire una persona tra la folla
e di perderla nel panico totale.
E di aver bisogno assoluto di trovarla,
di parlare con lei.
Fra affanni e ansie,
mi trovo fra le mani un cellulare ignoto
che non ha numeri in rubrica.
Ora so
che non ho smarrito i miei contatti,
che non ho perso i miei interlocutori:
ma io,
io mi son perduto,
strascicando il passo
sull’asse inclinato della vita.
E quel che avrei da dire l’ho già detto
70.
Nel quotidiano
non c’è mai tempo e modo
per le cose essenziali.
E allora, qui, su questi fogli,
io ne condenso una,
o almeno tento.
Ed è
che vorrei chieder perdono a chi so io
per le verbosità convenzionali
e le cose non dette,
per le banali leggerezze
e le malinconie nascoste,
per i fili tenuti e quelli sciolti,
per le finzioni escogitate
col solo scopo di rassicurare.
71.
È tardi e fra poco sarà sera
e poi verrà la pausa precaria della notte
che per chi sfugge al giorno
pare un intervallo senza rischi.
Io so, sì, io so
che il rosario dei giorni e delle notti
è una impercepita traslazione,
un lento smottamento,
un attraversamento intorpidito
con l’amorfa e sonnolenta inedia
del viaggiatore sopra un treno.
72.
Sfilano le nuvole nel cielo
indifferenti e senza far rumore.
Il loro viaggio non finisce mai:
scorrono ad ogni ora
e anche se non le guardi vanno,
sfilacciate o dense,
vaporose o gonfie.
Scivolando sulla terra
ne imitano le geografie.
Abbozzano fragili figure di animali,
facce,
profili e maschere grottesche.
Di notte giocano da sole,
forse si parlano,
effimere sopra le luci artificiali
e sotto l’eterno firmamento.
73.
Il giardino è sempre lì,
fermo e silenzioso,
indifferente ai giorni e alle notti,
al sole e alle bufere.
Il suo respiro naturale
non sa nulla della curva temporale
e non distingue
i pensieri contrastanti degli umani.
La terra si intride quando piove
e poi asciuga.
I rami cambiano colore
e perdono e riacquistano le foglie,
mai uguali.
L’inquietudine è solo di chi guarda.
74.
La scrittura
non accompagna sulla strada della vita,
ma in un percorso parallelo.
Per questo è risarcitoria,
come uno specchio impolverato
dove vedi te stesso e il tuo fantasma.
75.
Non mi farò portare sulle spalle
come Ancise.
Queste macerie sono solo mie,
mie e della mia generazione,
mia la causa, mia la conseguenza.
Non posso gravare
su ci ho giurato di aiutare per la vita.
Se non posso salvarmi,
non condannerò nessuno al mio soccorso.
76.
Da qui,
in questa condizione di confine,
vedo più chiaramente l’orizzonte
del deserto che sto attraversando,
del quale non so scorgere la fine.
Assegno il peso giusto
all’aria prosciugata che respiro
e ce risalta i grigi delle cose
e svela le vere prospettive.
Solo il naufrago
ha la lucida e concreta conoscenza
del senso
vero
delle parole mare, onda, vita.
77.
Siamo tutti, poco o tanto,
il prodotto dei nostri deliri,
come il Cavaliere dalla triste figura,
parto di fantasie stratificate
e frutto di deiezioni narcisiste
o di rimuginazioni confuse.
Ognuno padre e figlio insieme
e orfano di sé.
Non misuriamo mai la nostra decadenza,
ma negli specchi opachi
vediamo quello che desideriamo,
agghindati nelle nostre verità
Monotone e tenaci.
78.
Mi pare di capire che sia questo
il tempo della grande transizione.
Consapevolmente portato alla deriva,
io vivo immerso
in questa metamorfosi annunciata
ma non riesco a coglierne i contorni.
La confusione è nell’aria
come un temporale estivo.
Fingo distrazione ed indolenza,
acquattato nella trama dell’inerzia.
79.
Sterilizza l’anima,
se non ti basta sterilizzare la ferita
ed aspettare che diventi cicatrice.
Metti sotto silenzio il tuo dolore
se non vuoi esserne annientato.
A nulla serve
questa leggera pioggia d’autunno
che cade da un cielo di piombo
senza finire mai.
80.
Nemmeno più i pensieri
corrono liberi lontano,
accantonati qui con me dalla loro gravità
e spenti in questa casa,
imbalsamati coi ricordi,
orfani di orizzonti,
immobili e smarriti dentro il caos,
impolverati insieme ai sogni e alle finzioni.
81.
È tutto in bianco e nero
il mondo che appartiene alla memoria,
quello che giorno dopo giorno,
senza che lo sapessi,
dava consistenza al mio respiro,
mentre le notti
erano pause inesistenti.
Nasce da qui
l’inspiegabile fascino dei grigi:
dalla seduzione ovattata della nebbia,
dalla bianca meraviglia della brina
splendente sulle reti arrugginite,
dal magico mistero delle orme sulla neve,
dalla rivelazione di infinito
della pioggia silenziosa,
dall’incanto del vapore sopra i vetri
che rendeva intima la stanza,
dal fuoco acceso nel camino,
dall’odore di cenere e bucato,
dalle ombre fascinose che tremavano sui muri
e non destavano paure.